Copertina della rivista
apparecchiatura

L'Editoriale

di Alberto Clò - docente di economia Università Bologna, esperto di politiche energetiche ed ex Ministro dell’Industria Commercio e Artigianato del Governo Dini

La Strategia Energetica Nazionale: un compito arduo e complesso, ma necessario

Azzardarsi sullo scivoloso terreno della ‘programmazione energetica’ è, da noi più che altrove, compito arduo e complesso. Per più ragioni. Ad iniziare dalle infelici passate esperienze, nonostante un tempo fosse più facile ‘programmare’: per il controllo dominante dei grandi monopoli pubblici; il forte interventismo pubblico che influenzava gran parte delle decisioni aziendali, ad iniziare dai prezzi; il minor rilievo del dualismo centro/periferia che oggi impedisce o rallenta ogni scelta. Condizioni che non facilitarono tuttavia le cose. Nessuna delle scelte programmatiche contenute nei famosi o famigerati Piani Energetici Nazionali (1975, 1977, 1981, 1985, 1988) approvati dal Parlamento con maggioranze plebiscitarie, ebbe infatti seguito mentre quel che di nuovo è accaduto non era stato previsto. Tempi comunque lontani.

Disegnare una nuova Strategia Energetica Nazionale (SEN) – quale quella proposta nel Documento di consultazione pubblica del Ministero Sviluppo Economico – è scelta poi complessa per i rivoluzionari mutamenti istituzionali intervenuti negli ultimi due decenni: con la trasformazione dei grandi gruppi da enti pubblici a società private, prodromica al loro collocamento; la liberalizzazione dei mercati energetici; il trasferimento di un sempre maggiore potere decisionale a Bruxelles; l’istituzione dell’Autorità di regolazione che ha sottratto poteri al Ministero dello Sviluppo Economico; la riforma costituzionale che ha reso la materia energetica concorrente a livello locale.

L’insieme di questi mutamenti ha prodotto tre conseguenze: (a) ha reso le politiche energetiche orfane degli strumenti di un tempo: aiuti di Stato, monopoli, enti pubblici, controlli amministrativi; (b) ha spostato il centro delle decisioni dallo Stato alle imprese, tese al perseguimento di interessi particolari e non più generali; (c) ha ristretto il ruolo dello Stato centrale col trasferimento di potere agli enti locali e a Bruxelles, cui si sarebbe dovuto rispondere con un rafforzamento del nostro ruolo nei processi di negoziazione/formazione delle direttive. Quel che non è accaduto.

Di questi cambiamenti non sembra esservi gran consapevolezza nel dibattito che va sviluppando sulla proposta di SEN: continuando i più a ragionare su quel che la politica dovrebbe fare o non fare, su chi dovrebbe o meno agire, su quali soluzioni intraprendere, con gli stessi paradigmi del passato. Come se a decidere (sul mix delle fonti, le tecnologie, gli investimenti, la diversificazione) fosse ancora lo Stato dirigista attraverso il braccio operativo delle aziende pubbliche. Dal che la domanda da cui bisognerebbe partire: quale valore normativo possa assumere un disegno programmatico – di cui pure tutti sottolineano la necessità – in un sistema di mercato in cui le decisioni spettano ai soggetti privati; con gli ex-enti pubblici che perseguono l’interesse dei loro azionisti; col ruolo dello Stato che si limita all’individuazione di finalità pubbliche nella speranza che le convenienze di mercato possano corrispondervi.

Nel discutere di SEN sarebbe quindi necessario aver chiaro cosa essa non è: evitando l’equivoco – largamente presente nei  commenti che vanno affastellandosi – di un ritorno al passato. Lo Stato non ha più i margini per intervenire direttamente né è l’agente più informato a determinare le tecnologie più efficienti, il loro sviluppo ottimale, le provenienze geografiche degli approvvigionamenti e quant’altro. Spetta ai soggetti privati decidere se, quando, dove investire e cosa fare. Verso quale direzione far muovere le loro decisioni e con quali strumenti (senza dover ricorrere ogni volta a incentivi che disattenderebbero l’obiettivo della riduzione dei prezzi) è il compito della politica e della regolazione. Il “come fare” è altrettanto se non più importante del “cosa fare”.

Asse portante di una nuova strategia non può che essere – spiace dirlo per chi detesta anche la sola parola – una qual sorta di programmazione con una triplice funzione. Individuare, in primo luogo, le esigenze di sviluppo che garantiscano l’equilibrio domanda/offerta e il soddisfacimento di finalità di interesse generale, quale quelle delineate nella SEN  (crescita, competitività, ambiente, sicurezza). Assicurare, in secondo luogo, un’armonica coerenza delle decisioni dei diversi livelli decisionali: onde evitare le incongruenze, incertezze, contraddittorietà evidenziatesi nel recente passato. Verificare, infine, che le decisioni degli agenti muovano nel senso auspicato e, in caso contrario, predisporre – attraverso l’Autorità di regolazione e altri organismi pubblici – gli strumenti per colmare eventuali distonie.

Nel merito, la programmazione dovrebbe sostanziarsi nella fissazione di una scheda di priorità verso cui si vuol tendere – data la complessità, eterogeneità, contraddittorietà dei possibili obiettivi – da sostanziarsi in poche e chiare “linee strategiche” seguendo una politica integrata delle risorse domanda/offerta. Non ultimo: considerare la politica energetica come parte integrante della politica economica, perché condizione per accrescerne ricchezza, competitività, benessere. In una tal prospettiva, la politica energetica dovrebbe costituire parte integrante della politica economica per lo sviluppo, alla pari di quelle sul lavoro o in materia fiscale, da inserirsi nei piani nazionali di riforma che ogni paese è tenuto a presentare agli organismi comunitari.

Questo significa, come ha recentemente evidenziato Italiadecide, “coniugare politica energetica, politica ambientale e politica industriale elaborando apposite procedure per unificarle [….] riportando le decisioni al livello più alto attraverso articolate procedure di indirizzo programmatico tra Parlamento e Governo” già positivamente adottate in tema di finanza pubblica. Superare, in altri termini, la frammentazione e incoerenza delle decisioni ed il localismo esasperato, da cui derivano particolarismi e conflittualità che in nome di un’errata concezione della partecipazione riconosce a ciascuno un diritto di veto costituendo la maggior barriera al perseguimento di interessi unitari. Superare queste barriere sarebbe cosa comunque opportuna. Lo è ancor di più e in modo urgente nella drammatica situazione della nostra economia: schiacciata dai vincoli di finanza pubblica; dalla ristrettezza del credito alle imprese; dalla caduta della domanda interna.

L’energia può e deve costituire una delle leve per riprendere un percorso di crescita, come accadde nel primo Novecento negli anni del “decollo” della nostra economia imperniata sulla fonte idroelettrica, o nel Secondo Dopoguerra negli anni del “miracolo economico” con la valorizzazione delle risorse interne di gas naturale. Quanto sin qua detto è condizione pregiudiziale, ad avviso di chi scrive, di qualsiasi tentativo di elaborazione di un nuovo disegno di politica energetica. Come lo è l’individuazione di una solida e condivisa metodologia con cui confrontare le diverse opzioni in termini di costi/benefici rispetto alle diverse finalità che si intendono perseguire.

Infine, non ultima condizione: individuare il livello istituzionale deputato a svolgere questa valutazione incrociata degli obiettivi, degli effetti delle scelte proposte per conseguirli, degli eventuali scostamenti tra dinamica effettiva delle cose e obiettivi attesi. Chiarendo l’assetto delle responsabilità – chi fa che cosa – dei diversi soggetti pubblici che interagiscono nel sistema energetico italiano, ivi inclusa ENEA definendone più puntualmente la missione e dotandola delle risorse necessarie alla bisogna. Ridisegnare la governance energetica e conferire valenza normativa alla SEN sono le imprescindibili pre-condizioni per garantirle una qualche significatività.

Quel che potrebbe essere soddisfatto dall’assegnazione nel Documento – formalmente approvato dal Governo e auspicabilmente fatto proprio dal Parlamento in un apposito ordine del giorno – di specifiche deleghe attuative ai vari organismi pubblici deputati ad ogni specifico compito. Dibattere dei contenuti della SEN – tra chi ne propone un’estensione a tutto lo scibile umano in una proiezione di lunghissimo termine e chi la vorrebbe restringere a poche affermazioni; tra chi ne critica ogni quantificazione e chi non ne vorrebbe alcuna – non fornisce alcun contributo costruttivo, tenuto anche conto dell’incertezza politica che avvolge ogni futura decisione.

Non chiediamo, quindi, alla SEN di essere ciò che non può e non deve essere. Approfittiamo, piuttosto, di questa opportunità per definirne sul piano metodologico presupposti e finalità partendo dalla drammatica situazione della nostra economia che imporrebbe di puntare da subito a quelle azioni che possono fornire un contributo all’uscita dalla crisi.

Per informazioni e contatti: 

feedback