Editoriale
di Gaetano Borrelli
In un tipo di rivista come quella ENEA, il significato del titolo attribuito a ogni numero non è da spiegare perché, in generale, i lettori sanno esattamente di cosa si parla. Tuttavia, il tema della decarbonizzazione rientra in una categoria che presenta alcune particolarità di cui credo sia necessario dare qualche chiarimento anche linguistico, a cominciare dall’uso del termine in una sola parola senza trattino.
Le parole, infatti, precedute dal prefisso de attribuiscono, in generale, alla parola cui sono legati, una valenza negativa che arriva ad assumere spesso un valore “privativo” o “sottrattivo”. Gli esempi sono innumerevoli: deteinare, decaffeinare, derattizzare, per citarne alcuni. Oltre a questo tipo di valore del prefisso de, come ci spiega l’Enciclopedia Treccani, occorre aggiungere una ulteriore sfumatura, ovvero un cosiddetto valore reversativo. In questo caso, sempre secondo l’Enciclopedia Treccani, “il prefisso de- con valore reversativo è quello usato in più del 70% dei casi fra i verbi suffissati in –izzare (destabilizzare, desemantizzare ecc.)”.
Per chiudere questa breve disquisizione è necessaria un’ultima notazione. Le parole con prefisso de con valore sottrattivo/privativo sono le più frequenti tra i neologismi. Il dizionario dei Neologismi quotidiani di Valeria Della Valle e Giovanni Adamo (Firenze, Leo Olschki, 2003), ne conta ben 29 di parole generate con questo prefisso. È quindi chiaro che l’aggiunta di questo prefisso sarà sempre più comune e comprensibile nel futuro.
Le cose sono leggermente più complicate quando ci troviamo di fronte a termini che esprimono valori di carattere tecnico scientifico. In accordo con le definizioni date in precedenza, la decarbonizzazione esprime un valore di per sé negativo e al contempo la parola carbonizzazione esprimerebbe un valore di per sé positivo. Per altri temi ciò è vero. Infatti, si dice spesso che noi stiamo vivendo un processo di deindustrializzazione in cui si perdono i vantaggi di carattere economico e sociale di quella che è stata l’industrializzazione del Paese. La domanda è se possiamo associare queste caratteristiche alla carbonizzazione del Paese che comunque ha portato con sé, oltre agli effetti negativi per quanto riguarda l’ambiente, gli effetti positivi in termini di formazione del reddito e di PIL. Dal lato degli effetti negativi, quindi, si può pensare che la decarbonizzazione provochi un abbassamento del reddito e una discesa del PIL, anche perché ancora oggi gran parte del progresso si basa sul binomio sviluppo/inquinamento come già negli anni ’70 in cui durante la Conferenza di Stoccolma il rappresentante brasiliano si limitò a dire ai Paesi occidentali semplicemente “We want your pollution”.
La discussione allora, di cui questo numero della Rivista si fa carico, verte principalmente su questo: la valutazione sociale, economica e ambientale di una operazione, la decarbonizzazione, che deve essere fatta in tempi stabiliti e non secondo accordi più o meno lasciati alla discrezione di chi governa.
Questo perché, come ci dice la Treccani, “se si considerano le fonti commerciali, si constata che l’offerta (di energia - n.d.r.) continua a essere dominata dai tre combustibili fossili: carbone, petrolio e gas naturale, che rappresentano ancora oggi più circa l’80% dei consumi totali, contro il 99% nel 1900. Ciò sta a significare che nucleare e fonti rinnovabili (in particolare per la produzione elettrica) fanno fatica a inserire il loro cuneo nel dominio delle fonti fossili. Tuttavia, per ragioni sia di limitatezza fisica che ambientale, la progressiva sostituzione delle fonti fossili (ovvero la decarbonizzazione - n.d.r.) rappresenta una sfida centrale nel settore energetico in questo secolo e in quelli futuri”.
La definizione a questo punto diventa chiara anche per i non addetti ai lavori: basta cambiare la parola “decarbonizzazione” con “progressiva sostituzione delle fonti fossili” e subito il tema diventa, per così dire, popolare. Se questo basta, o potrebbe bastare, al pubblico laico, non basta certo a un pubblico più esperto che presumibilmente compone il target della Rivista. Proviamo allora a fornire una definizione più esperta: “La decarbonizzazione di un sistema energetico è il processo di progressiva riduzione del contenuto di carbonio nell'energia consumata dal sistema. Più in generale, per decarbonizzazione si intende la progressiva transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Nell’analisi trimestrale ENEA (http://www.enea.it/it/seguici/pubblicazioni/analisi-trimestrale-del-sistema-energetico-italiano) il processo di decarbonizzazione del sistema energetico italiano è valutato confrontandone la coerenza sia con gli obiettivi di penetrazione delle fonti energetiche rinnovabili sia con gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, ai due orizzonti temporali del 2020 e del 2030. La tabella di marcia stabilita dall’Unione Europea (UE) prevede che entro il 2050 l'UE tagli le sue emissioni dell’80% rispetto ai livelli del 1990”.
Possiamo dire che qui va decisamente meglio anche perché viene introdotto un concetto che fa chiarezza: la differenza tra carbone e carbonio. La differenza lessicale tra i due termini è sottile. Si tratta, infatti, di due vocali finali. In inglese, ad esempio, il carbone è Coal e il carbonio è Carbon, ed è più semplice capire che si tratta di due cose separate. La decarbonizzazione, quindi, al contrario di quanto spesso si è sentito dire, non è l’eliminazione del carbone dal processo di produzione dell’energia elettrica, ma la riduzione di quelle fonti, come si diceva prima, che trovano la loro ragione di essere all’interno della categoria energie fossili non rinnovabili.
La questione a questo punto diventa da tecnica, ovvero come sostituisco le fonti fossili, a politica, ovvero quali sono gli effetti di questa sostituzione. A questo livello avviene lo spostamento del problema con la creazione di una distonia tra la necessità di dover fare e la difficoltà di dover fare. Sorgono una serie di questioni non secondarie come ad esempio l’atteggiamento di operatori delle fonti fossili, in particolare petrolio e gas ma anche in parte carbone. Potrebbero secondo alcuni, aumentare i costi dell’energia, mentre secondo altri gli stessi costi potrebbero diminuire. Vi potrebbero, secondo alcuni, esserci pericoli di blackout, e secondo altri questo pericolo diminuirebbe.
Queste posizioni sono tutte lecite, come è lecito in un Paese democratico come il nostro, difendere i propri interessi. Il ruolo della politica a questo punto diventa determinante e il primo passo è quello di far capire agli stessi politici di cosa stiamo parlando.
Far capire implica un ulteriore livello di complessità perché alcune parole includono categorie, come direbbe Aristotele, mentre altre indicano oggetti. La decarbonizzazione è una categoria e come tale va inserita in un qualche contesto, mentre, ad esempio, la parola computer è di per sé autoreggente.
La categoria a cui dobbiamo fare riferimento è il sistema energetico. La definizione di sistema energetico è già di per sé un oggetto molto complicato perché una buona spiegazione dovrebbe comprendere molti elementi, come ad esempio, il tipo di energia, la produzione, l’approvvigionamento, il trasporto, l’inquinamento e altro.
La prima cosa da fare, dunque, è proporre una definizione esaustiva e sintetica comprensibile a chi ha un interesse sul tema. Per questo motivo mi dilungo su questo argomento. Molto in breve, ma non troppo per non danneggiare la comprensione, posso dire che l’espressione sistema energetico indica ciò che produce, trasforma, trasporta e distribuisce energia su un territorio. Il sistema in oggetto è in realtà composto da una pluralità di sistemi complessi, tutti connessi al territorio, che esprimono quel sistema energetico.
Un sistema energetico è logicamente inquadrabile come un bilancio, rappresentante un circuito di domanda e offerta di energia. Fondamentalmente, un sistema energetico mette a disposizione energia (producendola, importandola, usando delle scorte e trasformandola) da un lato e la consuma dall’altro. Ciò è strettamente connesso a ogni decisore politico in quanto qualsiasi società è legata ad un territorio e consuma energia. Oltre a tutto ciò bisogna considerare che un territorio può, in realtà, essere sede di impianti di produzione e trasformazione di energia ed ospitare sul suo suolo anche un segmento del sistema primario di offerta. Quest’ultimo è tuttavia gestito e normato a livello nazionale e internazionale.
La definizione di sistema energetico è quindi piuttosto ostica da circoscrivere in modo sintetico per la vastità e la complessità intrinseca della materia. È però possibile, ed essenziale, diffondere la consapevolezza del peso che ogni membro della collettività (in modo particolare i decision maker) possiede nel determinarne il funzionamento ottimale. Si pensi, ad esempio, ai consumi di energia delle famiglie: la diffusione della consapevolezza in ogni cittadino del costo dell’energia sia economico che ambientale, potrebbe correggere la domanda in modo virtuoso migliorando la dinamica del sistema nella sua interezza. Una riduzione ragionata dei consumi di energia domestica, ad esempio, nella prospettiva contabile di un bilancio energetico/ambientale, può tradursi in una riduzione delle importazioni per determinati tipi di fonte (esempio: riduzione della domanda di elettricità = riduzione delle importazioni di gas) e delle emissioni atmosferiche di gas serra (per la riduzione di lavoro di centrali termoelettriche). Ovviamente il ragionamento precedente rappresenta una pura schematizzazione approssimata della meccanica di funzionamento di un sistema energetico, ma serve a fornire l’idea di quanto sia indispensabile che ogni cittadino sia perlomeno informato e possibilmente coinvolto (ruolo attivo dell’utente finale) da chi esercita il potere politico nella determinazione di scelte ambientalmente sostenibili, come la decarbonizzazione, accompagnate a una sostenibilità economica e sociale.
Per tutti questi motivi in un prossimo futuro sembra necessario aprire un confronto tra le varie parti sociali su questo argomento. Questo numero della Rivista costituisce un tentativo di aprire questo dibattito con l’indicazione chiara che dovrà essere la politica, accompagnata dagli esperti, a dover fare il resto.
Veniamo ora ai contenuti della Rivista. Lo sforzo, modesto, della Rivista si è concretizzato a mio avviso, nel coinvolgimento del maggior numero possibile di istituzioni. Il numero comincia con una intervista, curata da Giorgio Graditi, al Direttore Generale di Energia Clima della UE. Tra le istituzioni abbiamo il coinvolgimento, oltre naturalmente dell’ENEA, di Università, del Ministero dell’Ambiente, nella persona del Direttore Generale, e di Ispra oltre a organizzazioni che molto possono dire sull’argomento come Eni, Enel, GSE, RSE, AIDEN, Nomisma, FEEM, Wuppertal Institut für Klima Umwelt Energie, IEA.
Devo dire che per i colleghi Giorgio Graditi, Sergio La Motta, Michele Marrocco e Giovanni Puglisi, è stato oltremodo impegnativo “rincorrere” Autori di così grande spessore e di questo sforzo li ringrazio, aggiungendo a questi ringraziamenti quelli dovuti a chi poi cura materialmente la realizzazione editoriale e web della Rivista (Giuliano Ghisu, Marina Fortuna, Paola Carabotta e Antonella Andreini in primis).
Ultimo, ma non per importanza, vorrei segnalare la rubrica Punto e Contropunto, alla quale hanno dato il loro contributo Giovanni Battista Zorzoli e Alberto Clô, accettando di confrontarsi sulla base dei loro ultimi lavori sull’argomento.
Come sempre si dice auspicherei, insieme ai curatori del numero, che questo sforzo rappresentasse l’inizio di un confronto. Non dipende solo da noi, ma il nostro impegno e quello dell’Agenzia ENEA, credo che ci sarà.