Fusione nucleare e Green New Deal
di Paola Batistoni, Marco Ciotti, Alessandro Dodaro, Giuseppe Mazzitelli
DOI 10.12910/EAI2020-036
La decarbonizzazione del settore energetico potrà difficilmente essere raggiunta con un’unica tecnologia, ma richiederà anche un portafoglio di fonti non considerate rinnovabili che abbiano bassa o nulla produzione di CO2. Per rendere questo insieme di energie pienamente sostenibile anche nella fase successiva alla transizione energetica, occorre sviluppare la tecnologia della fusione che ha diversi vantaggi in termini di sicurezza, ambiente e disponibilità e può fornire il carico di base in un mix a forte presenza di fonti intermittenti, anche con sostanziale disponibilità di energy storage.
di Paola Batistoni, Dipartimento Fusione e Sicurezza Nucleare, Responsabile della Sezione Sviluppo e Promozione della Fusione; Marco Ciotti, Responsabile della Divisione Fisica della Fusione; Alessandro Dodaro, Direttore del Dipartimento Fusione e Sicurezza Nucleare; Giuseppe Mazzitelli, Vicedirettore del Dipartimento Fusione e Sicurezza Nucleare
L’Unione Europea è impegnata nell’ambiziosa impresa di arrivare ad emissioni nette nulle di gas serra entro il 2050 con la prospettiva di un nuovo modello di sviluppo che separi la crescita dallo sfruttamento delle risorse e punti sull’innovazione tecnologica. Il Green New Deal, lanciato alla fine del 2019, prevede una serie di azioni per raggiungere questo obiettivo. Benché l’enfasi sia sullo sviluppo delle energie rinnovabili, la decarbonizzazione del settore energetico difficilmente potrà essere raggiunta da un’unica tecnologia e richiederà un portafoglio di soluzioni energetiche che includa anche fonti energetiche non considerate rinnovabili, ma che abbiano bassa o nulla produzione di CO2. Per rendere questo mix di energie pienamente sostenibile anche nella fase successiva alla “transizione energetica” occorre sviluppare l’energia da fusione che ha infatti diversi vantaggi:
- è virtualmente illimitata e diffusa – nell’acqua di mare c’è abbastanza combustibile (deuterio e litio) per mandare avanti la Terra con gli attuali consumi per alcune decine di milioni di anni;
- la disponibilità del combustibile, uniformemente distribuito ed utilizzabile da tutti i popoli del mondo, non genera tensioni geopolitiche;
- la reazione su cui si basa non produce gas serra;
- è intrinsecamente sicura;
- è rispettosa dell’ambiente – la reazione di fusione non produce scorie radioattive. Nel corso delle operazioni diventano radioattive le pareti della camera di reazione ma con un’opportuna scelta dei materiali la radioattività decade in alcune decine di anni.
Un reattore a fusione produce molta più energia per unità di massa di combustibile di qualunque reazione chimica come il bruciamento di benzina, gas o carbone. Ad esempio, una centrale a carbone da 1 GW consuma 2,7 milioni di tonnellate di combustibile/anno mentre una centrale a fusione di pari potenza si stima consumerà 250 kg di combustibile/anno. All’interno del reattore saranno presenti pochi grammi di combustibile in ogni momento, caratteristica che renderà questi reattori particolarmente sicuri.
Per ottenere reazioni di fusione occorre riscaldare i reagenti (due isotopi dell’idrogeno, deuterio e trizio, quest’ultimo prodotto a partire dal litio) a temperature di circa 100 milioni di gradi – superiori persino a quelle che si incontrano nei nuclei delle stelle. A temperature così elevate la miscela di reagenti si trova nella forma di gas ionizzato (plasma) e deve essere confinata mediante intensi campi magnetici. Così come il plasma nelle stelle, anche quelli di laboratorio sono sistemi complessi. Essi esibiscono una varietà di fenomeni turbolenti e instabilità che tendono a deteriorare il loro confinamento. I plasmi di laboratorio sono stati “addomesticati” a poco a poco grazie ad un imponente sforzo scientifico di tipo sperimentale e teorico.
Il Progetto ITER e la collaborazione tra le sette maggiori potenze economiche
È importante sottolineare che negli esperimenti attualmente in funzione sono già raggiunti valori di densità e temperatura del plasma simili a quelli richiesti in un reattore a fusione. Tuttavia, la potenza iniettata nella camera di reazione per raggiungere queste condizioni è stata finora sempre superiore a quella rilasciata dalle reazioni di fusione, con un record di 16 MW di potenza di fusione ottenuto sulla facility europea JET a fronte di 25 MW di potenza iniettata. Il primo esperimento in cui la potenza di fusione dovrebbe superare ampiamente quella iniettata nella camera sarà ITER [1], in costruzione a Cadarache in Francia.
ITER, che ha di recente completato circa il 70% della costruzione e si prevede entri in funzione nel corso di questo decennio, è una collaborazione tra le sette maggiori potenze economiche (Unione Europea, Cina, India, Giappone, Corea, Russia e Stati Uniti) che rappresentano il 50% della popolazione e l’85% del PIL globale. Tutti questi Paesi hanno programmi di ricerca avanzati sulla fusione motivati, in alcuni casi, dalla urgente necessità di accesso a nuove fonti di energia. L’Unione Europea ha da sempre la leadership mondiale delle ricerche in questo campo e sta sostenendo circa la metà dei costi di costruzione di ITER con l’obiettivo di avere il massimo ritorno scientifico da questo investimento e progredire nei tempi più brevi possibili verso DEMO, il reattore dimostrativo.
ITER rappresenta un’estrapolazione rispetto agli esperimenti attuali sufficientemente piccola da renderci confidenti nel raggiungimento degli obiettivi, ma significativa per la dimostrazione delle potenzialità dell’energia da fusione. ITER produrrà 500 MW di potenza termica di fusione a fronte di 50 MW di potenza iniettata nella camera di reazione – un fattore di amplificazione della potenza pari a 10 – per impulsi della durata di alcune centinaia di secondi fino a circa un’ora. La sua progettazione ha richiesto l’apporto di una vasta comunità di fisici che hanno cercato di comprendere le leggi della fisica dei plasmi e modellizzato in dettaglio il loro comportamento.
Sfide scientifiche e tecnologiche
La costruzione di ITER ha permesso alla comunità scientifica di misurarsi con le principali sfide di ingegneria della costruzione di un reattore a fusione:
- magneti superconduttori di grandi dimensioni ed elevate prestazioni;
- camere da vuoto di oltre 11 metri di altezza e 19 metri di diametro, con tolleranze di costruzione di pochi millimetri;
- sistemi di generazione di onde elettromagnetiche di alta potenza e fasci di atomi neutri di elevate energia e corrente;
- componenti affacciate al plasma che devono sopportare elevati tassi di erosione ed elevati carichi termici;
- manutenzione remotizzata delle componenti dentro la camera;
- sistemi di estrazione, stoccaggio e manipolazione di elevate quantità di trizio;
- sistemi di misura delle proprietà fisiche del plasma effettuate in un ambiente altamente radiogeno.
La costruzione di ITER ha rappresentato un’opera di estrema complessità, svolta in completa sinergia fra scienziati e ingegneri di numerose nazionalità, etnie, religioni e lingue, contribuendo alla coesione fra i popoli e all’innovazione in molti settori ad alta tecnologia. Le sfide poste dalla costruzione di ITER sono state affrontate e superate grazie a un dettagliato programma di ricerca e sviluppo che ha coinvolto l’industria europea e ha visto l’industria italiana in prima linea, aggiudicandosi circa 1,3 miliardi di euro, oltre il 50% del valore delle commesse se si escludono gli edifici e le infrastrutture. L’Italia è, quindi, nella posizione migliore per sfruttare il ritorno di know-how industriale dalla costruzione di ITER.
La via verso ‘DEMO’
La via verso la costruzione del reattore dimostrativo DEMO prevede, in parallelo ad ITER, di procedere prioritariamente a:
- sviluppare e qualificare nuovi materiali capaci di mantenere le proprie caratteristiche termo-meccaniche anche sotto l’effetto del danneggiamento da parte dei neutroni prodotti nelle reazioni di fusione;
- perfezionare le tecnologie per la generazione del trizio – prodotto all’interno del reattore a partire dal litio;
- consolidare il quadro di conoscenze dei meccanismi di base della fisica del plasma in condizioni reattoristiche.
Per completare in tempo utile tutti gli sviluppi che consentano, nel momento in cui ITER consegua l’obiettivo di un guadagno in energia pari a 10, l’inizio della costruzione di DEMO, l’Unione Europea ha sviluppato una Roadmap [2] che conduce verso la generazione di elettricità da fusione. DEMO, oltre a produrre una potenza termica in quantità molto superiore a quella di ITER, dovrà dimostrare la generazione netta di energia elettrica e l’autosufficienza nella produzione di trizio. DEMO inoltre dovrà dimostrare che è possibile costruire un reattore a fusione con costi di investimento compatibili con la sostenibilità economica della fusione.
Naturalmente il successo di questo programma dipende dalla capacità di superare una serie di sfide scientifiche e tecnologiche. Tra queste quella forse più importante è la capacità di smaltire il calore generato dalle reazioni di fusione e utilizzato per mantenere il plasma alla temperatura di 100 milioni di gradi. La soluzione individuata prevede di convogliare tale flusso di calore su un componente dedicato, detto divertore, composto da piastre raffreddate attivamente sulle quali i carichi termici possono raggiungere valori di alcune decine di MW/m2, dello stesso ordine del flusso di calore che si ha sulla superficie del Sole! ITER utilizzerà la configurazione di divertore oggi più studiata, ma questa configurazione potrebbe non essere estrapolabile a DEMO.
Il progetto DTT dell’ENEA
Per studiare configurazioni alternative di divertore, la Roadmap all’elettricità da fusione ha proposto la realizzazione di una nuova macchina con lo scopo di trovare una soluzione estrapolabile a DEMO, chiamata Divertor Tokamak Test (DTT) facility [3]. DTT rappresenta una rilevante opportunità di crescita per il sistema ricerca italiano e sfrutterà al meglio le competenze conseguite dall’industria e dai laboratori di ricerca italiani durante la realizzazione ed utilizzo delle macchine Tokamak dei laboratori ENEA di Frascati, FT e FTU, e nella partecipazione alla realizzazione di ITER. Il DTT è stato ideato dall’ENEA in collaborazione con CNR, INFN, Consorzio RFX, CREATE e alcune tra le più prestigiose università italiane.
L’investimento complessivo è di oltre 500 milioni di euro e, tra gli investimenti principali sono previsti 250 milioni stanziati dalla BEI con la garanzia del Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS, pilastro del Piano Juncker), EUROfusion contribuirà con 60 milioni a valere sui fondi Horizon 2020, il Ministero dello Sviluppo Economico e quello per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca con 40 milioni ciascuno, la Regione Lazio con 25 milioni.
Positive le ricadute sulla ricerca scientifica mondiale per i grandi progetti in corso e sull’economia italiana. Saranno infatti coinvolti 1.500 tra scienziati e tecnici (di cui 500 direttamente) e l’impatto sul PIL italiano sarà di circa due miliardi di euro.
Studi sulla penetrazione dell’energia da fusione mostrano che essa può vantaggiosamente contribuire alla produzione di elettricità verso la fine del secolo fornendo il carico di base in un mix energetico a forte presenza di fonti intermittenti, anche con sostanziale disponibilità di energy storage. Il successo di tale penetrazione dipenderà, da un lato, dalla economicità dell’energia prodotta ovvero dalle soluzioni tecnologiche adottate. D’altro lato, essa dipenderà in buona misura anche dalla determinazione con la quale la società vorrà perseguire l’obiettivo della decarbonizzazione.
BIBLIOGRAFIA
- www.iter.org
- European Research Roadmap to the Realisation of Fusion Energy, www.euro-fusion.org/eurofusion/roadmap/
- DTT - Divertor Tokamak Test facility – Interim Design Report (“Green Book”) (https://www.dtt-project.enea.it/downloads/DTT_IDR_2019_WEB.pdf)