Innovazione, sostenibilità, decarbonizzazione: per Enel una sfida da 14 miliardi
Intervista a Ernesto Ciorra, Direttore Innovability Enel
La transizione energetica è una grande opportunità per creare ricchezza e nuova occupazione e per arrivare al miglioramento della società e della qualità della vita in generale. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre essere umili, aperti al cambiamento e a rinnovarsi. Servono sinergie, tanta innovazione ed è essenziale che transizione e ripresa economica non siano percepite come in contrasto tra loro. In questo contesto, Enel ha deciso di fare della sostenibilità l’architrave di tutta la sua strategia e di investire oltre 14 miliardi per la decarbonizzazione nel prossimo triennio
La transizione energetica è uno dei pilastri del Green New Deal, il piano da 1000 miliardi di euro per trasformare in chiave sostenibile l’economia UE ed è anche al centro del Recovery Fund per rilanciare la crescita dopo l’emergenza COVID-19. Tuttavia, autorevoli esponenti del settore denunciano il rischio che si possa mettere in secondo piano la tutela ambientale in nome della ripresa economica. In questa intervista abbiamo chiesto a Ernesto Ciorra, Direttore Innovability dell’ENEL, se intravede questo rischio e perché.
Il processo di transizione energetica è in atto da tempo ed è impensabile che possa subire rallentamenti a causa delle conseguenze dell’emergenza sanitaria. Anzi, dobbiamo approfittare del nuovo contesto per accelerare il cambiamento. Finora l’Unione Europea si è mossa con grande determinazione, dapprima con il piano per finanziare la transizione verso un’economia più sostenibile e con meno emissioni nocive e da ultimo mettendo i temi ambientali al centro del Recovery Fund appena varato, con un terzo dei fondi destinati alle politiche ambientali e climatiche e alla digitalizzazione. Questa misura ci offre una grande opportunità, quella di alimentare con risorse significative il processo di transizione energetica. Ecco perché la transizione energetica e la ripresa economica non devono essere percepiti in contrasto tra loro. Anzi. Gli ingenti investimenti green sono infatti fondamentali per il loro significativo impatto sul PIL, sull’occupazione e costituiscono una leva importante per favorire la ripartenza del Paese.
Veniamo allo scenario nazionale sul fronte del Green New Deal e della transizione energetica. Quali punti di forza per il nostro Paese e quali eventuali criticità?
Nonostante i significativi progressi fatti finora è arrivato il momento di proseguire con maggior forza per il raggiungimento di obiettivi più ambiziosi in termini di capacità da fonti rinnovabili, decarbonizzazione e digitalizzazione, per sfruttare al meglio le risorse liberate dall’Unione europea. La transizione energetica rappresenta una grande opportunità per creare ricchezza e nuova occupazione. Servono però sinergie e tanta innovazione. Enel ha deciso da tempo di mettere le questioni ambientali al centro della propria strategia: rinnovabili, efficienza energetica domestica e industriale ed economia circolare sono al centro di ogni nostra azione. Un esempio su tutti, la rete di distribuzione sui cui abbiamo investito in digitalizzazione e tecnologie smart, abilitatori della transizione energetica. A queste innovazioni lavoriamo in maniera aperta, collaborando con numerose startup, università prestigiose e con aziende leader mondiali dell'innovazione. Un modo per fare sistema e superare criticità come quelle del settore delle batterie, che pur rappresentando una delle tecnologie chiave per la transizione energetica deve rispondere a una filiera dominata da pochi produttori, per lo più cinesi, che verticalmente integrati, dominano anche l’estrazione dei metalli rari necessari.
Lei ripete spesso che la transizione energetica è un processo inevitabile, irreversibile, che ormai è cominciato, ma può essere un’opportunità per le imprese riposizionarsi e darsi nuovi obiettivi. Può farci qualche esempio?
Nel 2014, appena nominato Starace nuovo AD, Enel ha stralciato un piano di investimenti da miliardi di euro in generazione tradizionale e ha dirottato queste risorse sulle rinnovabili. Ora sembra l’unica cosa da fare, ma all’epoca ci presero per sognatori. Quella decisione ci ha permesso di essere oggi il più grande operatore privato al mondo di impianti rinnovabili e un front-runner nel mondo della transizione energetica. La sostenibilità per noi è già l’architrave di tutta la nostra strategia finalizzata sia alla decarbonizzazione che alla elettrificazione dei consumi. Nel prossimo triennio investiremo 28,7 miliardi di cui 14,4 miliardi saranno destinati alla decarbonizzazione. Impianti di generazione convenzionale saranno sostituiti da impianti alimentati da fonti rinnovabili con l’obiettivo di ridurre la produzione globale da carbone del 75% rispetto al 2018 e superare, allo stesso tempo, il 60% delle rinnovabili sulla capacità totale. Quanto fatto da Enel dimostra che, per chi sa cogliere le opportunità offerte dalla transizione, questi investimenti generano ricchezza e non costi da recuperare. Per sfruttare le opportunità però dobbiamo essere umili, aperti al cambiamento e a rinnovarci.
Perché l’innovazione è una priorità?
Ci sono alcuni settori come quelli della telefonia o della moda dove, se non si fa innovazione, o si fa più lentamente, non nascono criticità che si ripercuotono sulla qualità della vita dei cittadini. Se invece non si innova il settore dell’energia, o quello farmaceutico o quello della biotecnologia medica, ci possono essere ripercussioni immediate sulla vita delle persone. E di questo noi ne siamo davvero consapevoli. Bisogna solo decidere di attuare il cambiamento. Provo a spiegarlo con una metafora che uso spesso. Ogni due ore cambiamo tutta la pelle delle nostre labbra, ogni 20 giorni quella del corpo e ogni 15 anni tutte le cellule del sistema scheletrico. L’essere umano si rinnova continuamente con l’apoptosi, che si distingue dalla necrosi, la morte cellulare: l’apoptosi è il rinnovamento deliberato delle cellule, per mutarsi e affrontare i cambiamenti. Se lo fa il corpo umano perché non dovrebbero farlo le aziende?
Una recente analisi ENEA evidenzia che dal 2015 in poi la posizione competitiva dell’Italia negli scambi internazionali delle tecnologie energetiche low-carbon sta peggiorando. A fine 2019 l’indicatore ha segnato –0,53 in media, con picchi negativi di –0,97 per veicoli ibridi, –0,89 quelli elettrici e un saldo negativo di 1,53 miliardi di dollari sulla bilancia commerciale. È possibile invertire questa tendenza? E con quali azioni?
Il nostro sistema industriale non sta tenendo il passo con l’innovazione richiesta per traguardare la transizione ecologica, e questo porta a una crescente dipendenza dall’estero. Se si vuol fare davvero innovazione tecnologica bisogna aprire alle menti esterne. Immaginare che i ricercatori interni ad un’azienda, benché preparati e numerosi, possano da soli assolvere a questa immensa scommessa con il futuro sarebbe un errore. Per questo come Enel abbiamo cercato di intercettare la mentalità di questi innovatori e creatori di start up sapendo che loro non hanno come primo obiettivo, quello di accumulare ricchezza – se ciò fosse avrebbero fatto scelte diverse – ma di costruire un futuro migliore, più equo ed equilibrato, per il pianeta. E chi ha questa visione non collaborerebbe mai con una società che non sceglie un percorso di sostenibilità. E in questo mi sembra che stiamo facendo un gran lavoro, visto che recentemente il rapporto internazionale “Change the World” di Fortune che ci ha indicato come l’azienda numero venti tra quelle che stanno cambiando il pianeta, cioè tra quelle con maggior capacità innovativa e di sostenibilità. Io penso che l’innovazione tecnologica in un’azienda vada gestita attraverso rapporti con le start up, con i partner, con i centri ricerca, lo stimolo delle risorse interne e la soppressione della stigmatizzazione del fallimento come un’onta personale incancellabile, sostituendola con la cultura aperta al fallimento come strumento di apprendimento necessario e inevitabile per chi prova a cambiare le cose.
Fra i temi più dibattuti del momento c’è l’auto elettrica. Una grande opportunità o c’è il rischio di ripetere gli errori fatti con il fotovoltaico, ovvero di non dare vita ad una filiera nazionale?
L’auto elettrica moderna è molto più di una vettura tradizionale. Per questo la catena del valore è diversa, include i produttori di batterie, dei sistemi digitali di intrattenimento, di sicurezza, le componenti software, per la ricarica e così via. Se questo mette in crisi i produttori tradizionali, apre opportunità ad operatori di altri settori. Tenendo presente questo, è chiaro che le vetture elettriche non sono solo un’opportunità per abbattere l’inquinamento nei centri urbani. Presto, diventeranno componenti fondamentali nella gestione del sistema elettrico. Già oggi, tramite la tecnologia V2G – Vehicle to Grid, è possibile non solo ricaricare l’auto elettrica utilizzando energia rinnovabile, azzerando in questo modo le emissioni, ma anche restituire parte di questa energia alla rete nei momenti di picco di domanda. Sebbene il concetto di V2G sia stato sviluppato ben 25 anni fa da un professore americano, Enel è stata la prima azienda al mondo ad avviare un progetto commerciale. Se analizziamo questo esempio, vediamo che sono necessari un software che consenta all’auto di caricarsi e scaricarsi, ottimizzando la gestione della batteria e preservando l’autonomia, un hardware che fisicamente consenta questo flusso di energia e una piattaforma digitale che connetta le varie batterie delle auto alla rete. Quante filiere industriali possono inserirsi nella fornitura di questo servizio? In Italia abbiamo le tecnologie e abbiamo le competenze e dobbiamo far diventare il nostro un Paese attrattivo per la mobilità elettrica. Ma è importante che la filiera industriale compia un passo avanti. Ora è un po’ slegata, anche per via della sua classica impostazione con tante piccole e medie imprese che non sempre seguono una cultura collaborativa. Le dimensioni contenute delle aziende di componentistica, inoltre, sono la prima causa della mancanza di liquidità e della carenza degli investimenti in ricerca e sviluppo per l’intero comparto. E finché il grande attore non si muoveva – FCA, che ha annunciato modelli elettrici per il 2020 – il resto della filiera stava fermo. Serve un piano per riconvertire una parte dell’industria automotive nazionale.
In questo momento si parla molto anche di idrogeno. La Commissione Europea ha recentemente presentato una strategia per la promozione di questo vettore energetico, la Germania ha approvato un piano di investimenti da 9 miliardi per diventare leader mondiale dell’idrogeno e otto grandi gruppi europei, fra cui Enel, hanno dato vita ad un’alleanza per la produzione di idrogeno ‘’rinnovabile’’ per decarbonizzare l’economia, creare occupazione e ridurre la dipendenza energetica. Perché è di così grande rilievo l’idrogeno?
L’elettrificazione dei consumi è lo strumento principale della decarbonizzazione della nostra economia. Esistono tuttavia settori, i così detti hard-to-abate, dove le caratteristiche tecniche dei processi industriali rendono l’elettrificazione diretta non sufficiente. In questi settori come ad esempio l’acciaio, la produzione di ammoniaca, il trasporto a lungo raggio, l’idrogeno può essere il complemento giusto per la decarbonizzazione, a patto che sia prodotto senza emissioni, ovvero tramite l’elettrolisi e l’utilizzo di energia rinnovabile. Attualmente, purtroppo, non è questo il caso: la quasi totalità dell’idrogeno commercializzato viene prodotto sfruttando gas e carbone, generando emissioni pari a quelle di Gran Bretagna e Indonesia messe insieme. La CCS (Carbon Capture & Storage) è una tecnologia matura che ad oggi non ha portato i risultati necessari e che soprattutto presenta fortissimi problemi di accettazione sociale. In sostanza, l’idrogeno è una delle soluzioni della transizione energetica solo se è verde. Da qui l’importanza di rendere competitiva l’elettrolisi e dell’alleanza di cui Enel fa parte, per indirizzare la ricerca e gli investimenti che UE e Stati metteranno a disposizione.
Ricerca e innovazione vengono ritenuti essenziali per la transizione energetica. A suo giudizio le imprese italiane investono a sufficienza in questa direzione? Che cosa servirebbe per rafforzare e far realmente decollare la collaborazione/incontro fra mondo della ricerca e imprese?
Nessuna azienda, per quanto grande, ha da sola le capacità necessarie. Il gruppo Enel ha quasi 70.000 persone, ma sapete quanti lavorano in innovazione? Più di 500.000! Questo perché innovano con noi startup, inventori, ricercatori, università, ONG, clienti e fornitori. Il 70% dei progetti innovativi degli ultimi quattro anni in Enel è stato fatto con idee esterne. Esempi sono la startup israeliana con cui abbiamo sviluppato droni per fare ispezioni alle nostre centrali, che ora ha commesse per Enel in tutto il mondo, oppure ancora Nozomi Networks, che ci ha permesso di difendere le nostre centrali da attacchi cyber, ha disegnato con noi le proprie soluzioni ed ora è leader mondiale attivo in oltre quaranta Paesi. Quando è venuta da noi 5 anni fa, non fatturava nemmeno un euro. Le code, nei negozi Enel, non si fanno da tempo grazie all’app della startup Youfirst, che abbiamo adottato 5 anni fa. Altre aziende che hanno deciso di sviluppare all’interno questa tecnologia ci hanno messo anni e sono stati colti impreparati per l’emergenza. Se non fossimo cambiati prima, oggi non saremmo in grado non solo di tenere circa la metà delle persone in smart working, ma di fare sessioni di training con realtà virtuale, fare site visit virtuali con i nostri fornitori, leggere i contatori da remoto e così via. È un problema culturale: o sei umile e accetti di farti aiutare, o muori. Il manager deve esternare il suo bisogno, non deve dire come risolverlo, ma farsi consigliare da realtà più piccole, con umiltà. Così come umile deve essere la startup che deve essere pronta a studiare con te la soluzione migliore al problema, che a volte non è quella già sviluppata, ma è da modificare.
Un’ultima domanda. Nel Green New Deal si sottolinea molto il tema dell’equità, dell’inclusione e si prevede un ‘Just transition fund’. Perché mettere insieme equità e sostenibilità?
Sostenibilità sociale e ambientale sono inscindibili. È fondamentale che le istituzioni cerchino di coniugare la lotta al cambiamento climatico con una società più inclusiva e a tal fine accelerare la transizione verso un’economia a emissioni zero che crei nuovi posti di lavoro catalizzando l’impiego sostenibile del capitale privato. La Commissione Europea da questo punto di vista sta facendo un buon lavoro, perché il Green New Deal è accoppiato al Just Transition Fund, che mette a disposizione risorse per superare quelle resistenze alla transizione energetica cui vanno aggiunte quelle altrettanto fondamentali per la digitalizzazione. L’Europa da sola non può bastare. Fortunatamente stanno arrivando segnali importanti anche dagli Stati Uniti, dove per la prima volta dopo 134 anni le rinnovabili hanno superato il carbone per energia consumata. Anche la Cina ha avviato uno dei più intensi piani di decarbonizzazione delle città, seguita dall'India. Per quanto ci riguarda, abbiamo identificato il nostro purpose nel dare energia ad un progresso sostenibile. Il progresso, diceva Pasolini, si differenzia dallo sviluppo, perché mentre il secondo guarda solo agli indicatori economici, il primo include un miglioramento della società e della qualità della vita in generale.