Un piano di azione strutturato per una ripresa sostenibile
Intervista a Alberto Bombassei, Presidente della Brembo
Oggi, per crescere, un’azienda deve necessariamente essere sostenibile, non soltanto rispetto all’ambiente – che è un prerequisito – ma ricercando costantemente le migliori condizioni produttive per ridurre la necessità di risorse da impiegare, rinnovabili e non. In questa sfida, è fondamentale il ruolo della ricerca così come una visione pragmatica e non ideologica da parte della politica che deve saper individuare obiettivi sfidanti e realistici da perseguire in maniera olistica e non settaria. E indicare un Piano di azione strutturato per la ripresa sostenibile farà giustizia di una serie di posizioni ideologiche che non aiutano una valutazione complessiva e pragmatica di questidue temi.
La transizione energetica con obiettivo emissioni zero è uno dei pilastri del Green New Deal, il Piano da 1000 miliardi di euro per trasformare in chiave sostenibile l’economia UE. Lo sviluppo di fonti rinnovabili, di tecnologie innovative e ‘pulite’ e l’efficientamento energetico sono al centro del Recovery Fund per rilanciare la crescita dopo l’emergenza COVID-19. Tuttavia, autorevoli esponenti del settore denunciano il rischio che in nome della ripresa economica si possa mettere in secondo piano la tutela ambientale. Lo abbiamo chiesto ad Alberto Bombassei, presidente di Brembo, azienda leader a livello internazionale nel settore mobilità/automotive/della produzione di impianti frenanti, in prima linea sul fronte dell’innovazione e della sostenibilità. Ing. Bombassei, intravede un rischio di rallentamento delle politiche per l’efficienza, il risparmio e la decarbonizzazione?
No, non vedo un rischio di questo tipo. Al contrario, credo che mai come ora dobbiamo tradurre in azioni concrete quanto abbiamo sin qui sentito in maniera quasi unanime dagli esperti e dai politici: sviluppo e sostenibilità non sono in antitesi e possono alimentarsi virtuosamente a vicenda. È anche quanto sostiene con convinzione la Presidente della Commissione Europea, alla quale mi associo. Credo che indicare un piano di azione strutturato per la ripresa sostenibile farà giustizia di una serie di posizioni ideologiche che non aiutano una valutazione complessiva e pragmatica dei due temi. Ad esempio, la recente tragica pandemia ha ridato la corretta dignità ai materiali plastici e monouso, che sono state le barriere indispensabili contro il virus per tutto il personale sanitario e per quasi tre miliardi di abitanti sul pianeta. Il tema qui non è demonizzare la plastica, quando questa è utile o addirittura indispensabile per tutelare la salute, ma prevederne un corretto smaltimento e riciclo. E nel contempo, continuare a studiare materiali di protezione biocompatibili e più facilmente compostabili o rigenerabili; qui, come in moltissimi campi, la ricerca è fondamentale. Per quanto riguarda il mio settore di attività, ovvero la mobilità, ripresa e sostenibilità devono andare a braccetto: un serio programma di rinnovo del parco circolante europeo che preveda lo smaltimento dei veicoli con livelli di emissioni fino ad Euro4 per i motori diesel e fino a Euro3 per quelli a benzina ridurrebbe rapidamente di oltre la metà lo stock di emissioni di CO2 grazie alle moderne tecnologie dei motori Euro6 e al contributo, ancora marginale per qualche anno, delle motorizzazioni elettriche e ibride. Io ho sempre pensato, nel mio essere imprenditore, che una azienda per svilupparsi debba necessariamente essere sostenibile, e questo termine comprende assai più della sostenibilità rispetto all’ambiente, che è un prerequisito ma che da solo non garantisce certo la vita di una impresa.
Brembo si è data un obiettivo di riduzione delle emissioni assolute di sostanze climalteranti del 19% entro il 2025. Con quali strategie e iniziative pensate di raggiungere questo target?
È un obiettivo realistico e che fa parte di un piano organico che vede Brembo impegnata verso sei degli obiettivi ONU di sviluppo sostenibile. L’obiettivo 13 (lotta al cambiamento climatico) non potrebbe essere raggiunto senza coinvolgere l’obiettivo 12 (consumo e produzione responsabili). E per promuovere piani concreti verso questi obiettivi, un’istruzione di qualità (obiettivo 4) è indispensabile per poter contare su collaboratori capaci e motivati a creare un mondo possibile e sostenibile. In concreto, si tratta di ricercare costantemente le migliori condizioni produttive che riducano la necessità di risorse da impiegare, sia rinnovabili che non. Ad esempio studiare processi produttivi più compatti, che limitino anche gli spostamenti interni dei materiali in lavorazione consente di ridurre la superficie necessaria dei capannoni industriali, con minore impatto per la loro costruzione, il loro mantenimento, il consumo di suolo e in generale le risorse per farli funzionare. Pensare ‘lean’, che tradurrei con ‘leggero e agile’ in ogni ambito del nostro agire in azienda ci porta naturalmente verso questi obiettivi, che anche i nostri importanti clienti oggi dimostrano di valutare ed apprezzare assai più che in passato.
Perché un’azienda che non opera direttamente in questi settori ha scelto di dotarsi di una direzione ambiente ed energia e di coinvolgere i propri dipendenti sui temi della sostenibilità anche attraverso campagne di comunicazione e formazione?
Nella mia ormai lunga esperienza di imprenditore ho sempre considerato che la vita privata e quella lavorativa non sono tra loro impermeabili, ma che vi è una osmosi naturale e che può e deve portare ad un miglioramento complessivo della soddisfazione e della qualità della vita dei nostri collaboratori. E quindi il coinvolgimento aziendale sui temi della sostenibilità nei tanti gesti che compiamo in azienda è semplicemente il riconoscere l’importanza che la cura del nostro pianeta ha nella vita di ognuno di noi, sia al lavoro che nella nostra vita a tutto tondo.
Veniamo allo scenario nazionale sul fronte del Green New Deal e della transizione energetica. Quali opportunità e punti di forza per il nostro Paese e quali eventuali criticità?
Credo che il nostro Paese abbia una naturale vocazione all’uso e al riuso intelligente delle materie prime e seconde delle quali non disponiamo ma che sappiamo impiegare in maniera creativa. La cultura tecnica italiana di approccio ai problemi ed alla loro soluzione è mediamente assai più efficiente di quella di molti altri Paesi, e sappiamo fare di più con meno. Questo, mi creda, è uno degli insegnamenti della mia vita di imprenditore e lo posso affermare a buon titolo, conoscendo il mondo industriale nei diversi continenti. A questa capacità e inclinazione si contrappone una pesantezza burocratica e procedurale ormai insostenibile e ingiustificabile, nel mondo che avanza rapidamente, e si aggiunge anche una visione politica dirigista e troppo ideologica, che non comprende i sentieri virtuosi che potremmo e dovremmo percorrere al di là dei proclami e degli obiettivi sbandierati. Se qualche lettore pensa che stia esagerando cito solo un numero: 15, che sono i miliardi di euro che ogni anno cittadini e imprese in Italia pagano di tasca propria per sovvenzionare la produzione elettrica da fonti rinnovabili, che per quanto riguarda il fotovoltaico ha fatto ricchi e felici i nostri amici cinesi, produttori di oltre il 95% dei pannelli solari di prima generazione e mediamente inefficienti sui nostri tetti.
Una recente analisi ENEA evidenzia che dal 2015 in poi la posizione competitiva dell’Italia negli scambi internazionali delle tecnologie energetiche low-carbon sta peggiorando. A fine 2019 l’indicatore ha segnato –0,53 in media, con picchi negativi di –0,97 per veicoli ibridi, –0,89 quelli elettrici e un saldo negativo di 1,53 miliardi di dollari sulla bilancia commerciale. È possibile invertire questa tendenza? E con quali azioni?
Confesso di non conoscere questa specifica analisi, ma non mi sorprenderei se il ‘paniere’ considerato delle tecnologie ‘low carbon’ non fosse completo. Mi spiego meglio: il fatto che la mia, come molte altre aziende nel nostro Paese, investe somme ingenti in R&S per ridurre l’impatto ambientale e le emissioni di CO2 dei propri processi e nei prodotti che poi esporta non credo sia pienamente valutato. Non vorrei, ad esempio, che nel conteggiare il valore di un’auto elettrica americana importata non si tenesse conto di quanti componenti italiani, leggeri ed efficienti, sono assemblati sulla stessa e precedentemente esportati. E non parlo solo dei freni, che ovviamente conosco direttamente, ma anche di componenti essenziali del motore elettrico e del sistema di regolazione della potenza, solo per citarne alcuni. Il valore di ogni veicolo per circa l’80% è rappresentato dai suoi componenti. E in Italia non abbiamo grandi produzioni di veicoli, anche elettrici, ma ottime aziende produttrici di componenti, anche per veicoli elettrici. Dobbiamo chiedere un adeguato riconoscimento normativo per lo sviluppo della nostra filiera automotive e della mobilità a partire dai componenti, promuovendone la ricerca e la produzione.
Fra i temi più dibattuti del momento c’è l’auto elettrica. In passato lei ha richiamato l’attenzione sui possibili impatti sociali con particolare riferimento alla perdita di posti di lavoro.
Certamente nel periodo di transizione dai motori a combustione interna verso quelli elettrici circa un terzo degli occupati dalla nostra industria potrebbe perdere il proprio lavoro. Sto parlando di circa 100.000 posti di lavoro italiani e di circa 3 milioni a livello europeo. Ed è per questo che quanto ho richiamato prima, ovvero visione pragmatica e non ideologica, individuazione di obiettivi sfidanti e realistici da perseguire in maniera olistica e non settaria è fondamentale. E questa è politica, con la P maiuscola, che deve vedere anche le aziende come soggetti e non oggetti della pianificazione del futuro della nostra società. E chi afferma che il rischio occupazionale non esiste poiché vi sono altre attività connesse all’elettrificazione della mobilità mente sapendo di farlo; è la storia che abbiamo sentito con i pannelli fotovoltaici cinesi: li abbiamo installati, ma non prodotti, e c’è una bella differenza di valore aggiunto e quindi di impiego e di lavoro.
In questo momento si parla molto anche di idrogeno: la Commissione Europea ha recentemente presentato una strategia per la promozione di questo vettore energetico e otto grandi gruppi europei, fra cui Enel, hanno dato vita ad un’alleanza per la produzione di idrogeno ‘’rinnovabile’’ per decarbonizzare l’economia, creare occupazione e ridurre la dipendenza energetica. È una strategia condivisibile?
È certamente una strategia condivisibile, anche guardando a cosa succede nel mondo. Lo scorso giugno, i nostri amici tedeschi hanno approvato un piano di produzione di energia da 5.000 MW da idrogeno al 2030, e il Giappone sta testando in condizioni reali la possibilità di una ‘società dell’idrogeno’, con città pilota che utilizzano questo gas per tutti i fabbisogni energetici. Anche per i veicoli e la mobilità, l’idrogeno è più che una promessa. Occorre comunque uno sforzo enorme e urgente di ricerca di nuove modalità più efficienti dal punto di vista del bilancio energetico nell’ottenimento dell’idrogeno dall’elettrolisi dell’acqua. Questo è a mio avviso attualmente il punto debole di questa promettente tecnologia. E anche in questo campo il nostro Paese ha grosse competenze che dovrebbero essere adeguatamente valorizzate e ulteriormente sviluppate da un lungimirante piano energetico nazionale che colga appieno questa possibilità.
Ricerca e innovazione vengono ritenuti essenziali per la transizione energetica. Nella sua esperienza di innovatore, anche come ideatore del Parco tecnologico Kilometro Rosso, uno dei più importanti centri di ricerca nazionali, le imprese italiane investono a sufficienza in questa direzione?
Certamente no, a mio avviso. E credo che questo dipenda da situazioni contingenti e culturali che non facilitano lo sviluppo di una attitudine positiva e diffusa nei confronti della ricerca. Le nostre aziende sono mediamente di dimensione troppo limitata per poter affrontare impegnativi programmi pluriennali di ricerca con le loro forze. E la cultura imprenditoriale media in Italia privilegia l’affinamento evolutivo delle competenze e delle produzioni, siamo dei maestri in questo, piuttosto che ricerca vera e propria di soluzioni realmente innovative. Anche la connotazione culturale dell’eventuale fallimento di una iniziativa od impresa credo che costituisca un limite.
Nel corso della sua attività parlamentare lei è stato fra i firmatari della proposta di Legge Capua sull’utilizzo di strumenti di finanziamento di attività di ricerca, avvicinando il sistema italiano a quello degli altri Paesi europei. Di che cosa avrebbe bisogno oggi, secondo lei, la ricerca italiana? Che cosa servirebbe per rafforzare e far realmente decollare la collaborazione/incontro fra mondo della ricerca e quello delle imprese?
Servirebbe guardare a cosa già fanno i nostri partner europei, adattandolo dove serve. Credo che occorra avere il coraggio di defiscalizzare pienamente l’attività di ricerca in Italia, creando un meccanismo simile al ‘patent box’ che ha ben funzionato, e denominandolo ‘innovation box’. Poter maturare dei crediti fiscali dalla collaborazione con enti di ricerca ed università è un altro modo per fare convergere due mondi che hanno molto da trasmettersi e che ancora collaborano troppo poco. Anche alcuni atteggiamenti culturali vanno modificati, sia da parte dell’impresa che da parte dell’ente di ricerca. E io sono orgoglioso di un tratto di strada fatto insieme ad ENEA in questa direzione: il Kilometro Rosso infatti si appresta ad accogliere due importanti laboratori nei quali gli specialisti e ricercatori di ENEA potranno trasferire le loro conoscenze e ricerche al tessuto imprenditoriale del nostro territorio, e al contempo ricevere stimoli e comprendere bisogni che potranno alimentare le future attività, in uno scambio virtuoso.