Comunicare l’innovazione
di Massimo Sideri
DOI 10.12910/EAI2023-046
Oggi più che mai e in particolare in Italia, c’è bisogno di raccontare le storie di chi sta tentando il salto sempre nel buio per innovare e spesso senza il dovuto supporto del tech transfert. Scienziati che rischiano la propria reputazione per la cosiddetta proof of concept, la prova del concetto che fa tanto paura. La comunicazione, quindi, gioca un ruolo fondamentale a condizione che sia corretta e rigorosa.
Massimo Sideri
Inviato ed Editorialista Corriere della Sera - Direttore scientifico Rcs Academy Innovation
Quanti di voi hanno mai acquistato una matita Bernacotti? Senza bisogno di sondaggi la risposta è facile: nessuno. Ma è proprio questo il problema.
Non sono in molti a saperlo ma i coniugi Simonio e Lyndiana Bernacotti sono accreditati come gli inventori della matita alla fine del Seicento. Non il lapis, certo, noto fin dall'antichità, ma quella che usiamo ancora oggi: un bastoncino tipicamente in legno con un'anima in grafite (le prime miniere vennero scoperte proprio nel corso del Seicento). Molti di noi hanno però avuto tra le mani matite Faber Castell o Conté. In particolare l'azienda francese ha una storia che vale la pena di essere conosciuta: Nicolas-Jacques Conté era un ufficiale dell'esercito napoleonico. Una sorta di inventore tuttofare. Tentò anche di usare le prime mongolfiere per la campagna d'Africa francese in Egitto. Ora, visto che le miniere di grafite al tempo conosciute erano in Inghilterra e dato che la Francia non andava d'accordo con i cugini inglesi, Conté ebbe l'idea di impastare la poca grafite con una materia prima molto diffusa: l'argilla. Et voilà: Conté è passato alla storia come l’inventore della matita così come nel primo Seicento Blaise Pascal prese il posto di Evangelista Torricelli quale scopritore del vuoto.
Qual è la morale di questa storia? È che l'Italia - per tante ragioni che sono state ampiamente analizzate dalla letteratura - gode di una incredibile inventiva, fase fondamentale per la genesi di nuove idee scientifiche e di innovazioni di vario genere, ma inciampa poi in quello che si chiama trasferimento tecnologico (oggi si preferisce parlare di knowledge transfert, trasferimento di conoscenza, ma il senso non cambia). Nasce così l'Istituto Italiano di Tecnologia così come le molte esperienze di collegamento tra mondo della ricerca e delle aziende, quali il Kilometro Rosso alle porte di Bergamo. Lo stesso Pnrr usa il concetto di trasferimento tecnologico (e partnership pubblico-privata) fino alla noia.
Altri esempi potrebbero essere fatti per tentare di dimostrare il contrario. Uno per tutti: abbiamo inventato gli occhiali (a Venezia: gli oculi de vitro cum capsula del Nome della Rosa) e ancora oggi il distretto veneto di Luxottica e cugini vari domina il mondo. Vero. Ma è l’eccezione.
Due mondi paralleli
Scienza e impresa in Italia si sono sempre sentite parte di due mondi paralleli, che non si incontrano e non si devono incontrare. Peccato che sia ampiamente dimostrato come i Paesi che investono di più in scienza, innovazione e tecnologia siano gli stessi che crescono di più anche in termini di ricchezza e occupazione.
Oggi ancora di più: i nuovi lavori stanno prendendo forma nelle cosiddette aree Stem, Science, Technology, Engineering e Math, anche se da amante di Italo Calvino mi piace sottolineare come la cultura umanistica deve essere aggiunta a questa formula se non vogliamo perdere l’aspetto epistemologico della faccenda che potrebbe essere sintetizzato così: intelligenza artificiale, ma io e te che abbiamo da dirci? Fuor di battuta, la risposta è: molto, a patto di saper fare le domande giuste.
La lunga introduzione serve per capire come oggi, in particolare in Italia, ci sia bisogno di raccontare le storie di chi sta tentando il salto sempre nel buio e spesso senza il dovuto supporto del tech transfert. Scienziati che rischiano la propria reputazione per la cosiddetta proof of concept, la prova del concetto che fa tanto paura. Ed è in questo contesto che si collocano nuove realtà editoriali come ad esempio la newsletter ‘One more thing’ de il Corriere della Sera con notizie dal mondo della scienza e dell’innovazione tecnologica che ci cambiano la vita (più di quanto crediamo).
Siamo un Paese che dovrebbe dedicare la maggior parte delle risorse finanziarie destinate all’innovazione non al sogno di una piccola Facebook made in Italy, ma di una grande biotech tutta italiana, una multinazionale delle nanotecnologie, nuove imprese nel settore aerospaziale, un nuovo impero nel settore dell’informatica (qui ce l’avevamo quasi fatta quando per ragioni storiche legate a Mediobanca, alla Fiat di Agnelli e alle relazioni con gli Stati Uniti abbiamo fatto di tutto per soffocarlo dopo la scomparsa di Adriano Olivetti).
Ma non è questo lo spazio per i sentimentalismi fuori tempo massimo.
Il tema è: come scovare le storie giuste? Cerco di dare la mia interpretazione. Avendo una formazione economica (e una insoddisfatta curiosità scientifica) la formula artigianale che ho sempre usato è questa: andare a caccia di talenti scientifici che abbiano l’umiltà di cercare di capire che il mercato è un’altra cosa. Si può essere un premio Nobel senza per questo nutrire un senso di superiorità nei confronti dei prodotti finali.
Non esiste una serie A e una serie B tra scienza di base e applicata
Attenzione: questo non vuole dire che tutti gli scienziati debbano fare gli imprenditori. La scienza di base, lo sappiamo, è la piattaforma dell’intero progresso sociale. Senza Fleming e Albert Einstein saremmo ancora dei commercianti medievali. Ma smettiamola di considerare lo scienziato che si vuole mettere alla prova con il mercato come qualcuno che sta vendendo l’anima al diavolo. Un animal spirit confuso. Mai sono mossi dal denaro. Anche perché come ha detto saggiamente una mia amica miliardaria: non ho mai conosciuto qualcuno che facesse impresa solo per il denaro che ce l’abbia fatta a diventare ricco.
Non esiste una serie A e una serie B tra scienza di base e applicata. Lo insegnava lo stesso Vito Volterra, che fondò il Cnr esattamente un secolo fa: alcune rivoluzioni, scriveva Volterra, sono nate per applicazioni industriali e poi hanno cambiato il paradigma della scienza (pensate all’applicazione del motore a vapore nella rivoluzione industriale e alla spinta che poi ha dato alla ricerca sulla termodinamica), mentre altre sono nate nei gabinetti scientifici, come l’elettricità, e poi sono diventate il sistema operativo della società sapiens. Historia magistra Innovationae. Basta studiarla.