Aumentano le emissioni globali di gas serra, ma i negoziati di Bonn sul clima rimangono al palo
L’IEA, l’Agenzia Internazionale per l’Energia dell’OECD, il 24 maggio scorso ha comunicato alcuni dati preliminari del rapporto annuale World Energy Outlook e in particolare le stime sulle emissioni globali di anidride carbonica nel 2011. Le emissioni globali continuano a crescere senza soluzione di continuità e ogni anno che passa diventa un record. Nel 2011 le emissioni globali di anidride carbonica derivanti dall’uso di combustibili fossili segnano così un nuovo record di 31,6 miliardi di tonnellate, cioè un miliardo di tonnellate in più del 2010 che era stato l’anno record precedente, pari a un incremento del 3,2% nello spazio di un solo anno. Le emissioni provenienti dall’uso del carbone mantengono salda la loro posizione di testa con il 45% sul totale delle emissioni di gas serra, seguite da quelle del petrolio con il 35% e, infine, da quelle del gas naturale con il 20%.
Quest’andamento crescente delle emissioni globali non lascia ben sperare sulla reale fattibilità degli impegni internazionali presi in sede ONU, riaffermati nel recente incontro dei G8 a Camp David (18-19 maggio 2012), di contenere il surriscaldamento globale entro i 2 °C rispetto all’epoca preindustriale. Anzi, conti alla mano, appare abbastanza improbabile che questo impegno possa effettivamente realizzarsi, se la crescita delle emissioni globali non si arresta al più presto e inverta la tendenza prima de 2017. È necessario, infatti, che le emissioni globali scendano al livello di circa 12 miliardi di tonnellate per anno (taglio di almeno il 60% delle emissioni attuali), perché tale livello rappresenta quello massimo compatibile con gli impegni presi.
Alla crescita delle emissioni globali del 2011 hanno contribuito essenzialmente i paesi in via di sviluppo (con il 6,1% in più), ma in particolare quelli emergenti come Cina (9,3% in più) e India (8,7% in più), nonostante la Cina nell’ultimo quinquennio abbia ridotto del 15% la sua intensità carbonica (ndr: il rapporto tra le emissioni di CO2 e il prodotto nazionale lordo). La crescita delle emissioni nel continente indiano, invece, è tale ormai che nella classifica dei maggiori emettitori globali l’India ha scavalcato la Russia e ora è al quarto posto dopo Cina, USA e Unione Europea.
Nonostante queste notizie non certo tranquillizzanti, il negoziato intersessionale tenuto a Bonn tra il 14 e il 25 maggio scorso che doveva avviare il nuovo trattato internazionale sul clima sulla base della “piattaforma di Durban”, è stato abbastanza deludente, per non dire inconcludente, tanto che la Commissaria al Clima della Commissione Europea, Connie Hedegaard ha emesso un duro comunicato (Memo 12/379 del 25 maggio 2012) nel quale, senza mezzi termini, accusa le maggiori economie mondiali di comportamenti irresponsabili e insostenibili per un negoziato delle Nazioni Unite (this is not just irresponsible, it is untenable for a UNFCCC process that wants to remain relevant). E aggiunge che questi paesi sono stati presenti al negoziato non per cercare un accordo, ma per tentare di tornare indietro rispetto a decisioni già prese (to backtrack from what was agreed in Durban only five months ago) e di accompagnare questo tentativo mediante perdite di tempo (attempts to backtrack and time - consuming).
La sessione negoziale di Bonn, infatti, ha perso tutto il tempo disponibile (due settimane) per discutere come impostare la bozza del nuovo trattato internazionale sul clima, che dovrà essere pronta entro il 2015, come strutturarla, come redigere l’agenda dei lavori, decidere il presidente, il vicepresidente e lo “staff” del gruppo di lavoro di redazione di questa bozza. Le maggiori controversie hanno riguardato come raccordare gli impegni di riduzione delle emissioni (su base essenzialmente volontaria) sia dei Paesi industrializzati, sia di quelli in via di sviluppo, ma in particolare delle economie emergenti, negli otto anni intercorrenti tra la scadenza del protocollo di Kyoto (31 dicembre 2012) e il nuovo trattato sul clima che entrerà in vigore il 1° gennaio 2020, affinché venga rispettato l’obiettivo di mantenere il surriscaldamento globale sotto i 2 °C.
In questo contesto, le più accese polemiche hanno riguardato la definizione di “paesi sviluppati” e “paesi in via di sviluppo”, una suddivisione che risale al 1992 (summit di Rio), ma che non corrisponde più alla situazione attuale. “Ma, oggi, la Cina è davvero un paese in via di sviluppo bisognoso di finanziamenti, di trasferimento tecnologico e di capacity building?”, ha chiesto il negoziatore capo degli USA, Jonathan Pershing. E ha, poi, aggiunto: “Come si fa a dire che sono in via di sviluppo paesi come il Qatar o Singapore, che hanno un benessere economico e un reddito pro-capite ben superiore a quello degli USA?”
Insomma, dopo due settimane di bizantinismi formali e di contrasti sostanziali, l’unico risultato finale è stato quello di mettersi d’accordo sull’agenda dei futuri lavori e sui criteri di individuazione delle caratteristiche di chi potrà ricoprire la carica presidente e la carica di vicepresidente del gruppo di lavoro incaricato di elaborare la bozza di tratta sulla base della “piattaforma di Durban”. Un po’ meglio sono andati i lavori degli organi di supporto tecnico e di supporto all’implementazione degli accordi, nei quali sono stati fatti alcuni progressi sulle questioni riguardanti la lotta alla deforestazione e il ruolo dell’agricoltura e sui problemi riguardanti il trasferimento tecnologico e la capacity building nei paesi in via di sviluppo.
Il bilancio finale di questo negoziato, che ha visto la partecipazione di 1547 delegati in rappresentanza di 183 paesi (l’Italia era presente con 14 delegati), di 915 rappresentanti di 263 organizzazioni non governative e intergovernative, e di 39 giornalisti accreditati, è stato deludente, molto deludente.
(Daniela Bertuzzi)