L'Editoriale: La sfida di misurare il benessere
di Elisabetta Guidobaldi, giornalista dell’Agenzia Ansa
Nessuno, nemmeno i più esperti, per così dire, “abituati” a confrontarsi con i cambiamenti e i disastri, è riuscito a restare indifferente dinanzi alle immagini di un’Italia piegata dalle piogge.
Frane catastrofiche e alluvioni nella Cinque Terre, in Toscana e nella provincia di Messina. Genova, e non una città lontana o in mezzo a una foresta pluviale, ma la “nostra’’ Genova, è stata invasa da un fiume in piena nella sua vita quotidiana.
I disastri idrogeologici di quest’autunno 2011 hanno strappato sgomento e commozione non solo nell’opinione pubblica, ma soprattutto nei nostri geologi, climatologi e meteorologi. Un dato, questo, della partecipazione emotiva della scienza, che entra di diritto nella triste cronaca di questi primi di novembre del 2011 e che ci mette di fronte, nella sua dirompente semplicità, alla gravità del momento.
Imputato numero uno il clima, ma, è stato fatto notare a noi giornalisti, non tutte le colpe possono essere attribuite ai cambiamenti climatici. In realtà il mondo dell’informazione nazionale si è trovata a fare i conti con i dati sull’urbanizzazione (spesso selvaggia e abusiva), con l’abbandono del territorio e la poca, anzi quasi inesistente, gestione delle idrovie.
Insomma un quadro in cui si innescano rabbia e incomprensione perché si tratta ancora una volta di una tragedia annunciata che ha lasciato dietro di sé vittime e distruzione. E lo si può affermare con certezza leggendo le catastrofi che hanno colpito il nostro Paese in 100 anni. La lista lascia senza fiato e si scopre che Genova ha subito gravi fenomeni già altre volte (1970-1992-1993) e che, secondo dati contenuti in un rapporto di Legambiente, nel capoluogo ligure oltre 100 mila persone, 1 abitante su 6, vivono o lavorano in aree ad elevato rischio idrogeologico. Le piogge che hanno colpito l'area genovese in questo primo di novembre 2011 hanno raggiunto un picco di 300 mm in sole 13 ore nel bacino del Rio Fereggiano. Ma non è tutto. Nell'85% dei comuni liguri in cui vi siano aree ad elevato rischio idrogeologico che hanno partecipato all'indagine “Ecosistema rischio” di Legambiente e Protezione Civile, sono presenti abitazioni nelle aree golenali, in prossimità di alvei e nelle zone a rischio di frane, e nel 46% dei casi sono presenti in tali zone interi quartieri. Addirittura nel 56% dei Comuni intervistati sono stati edificati fabbricati industriali in zone soggette al pericolo di frane e alluvioni.
In Toscana la scena, purtroppo, si ripete. E questa volta, sempre secondo la puntuale descrizione di Legambiente, il disastro in Lunigiana sempre nell’autunno di quest’anno non era solo annunciato, dice Legambiente, ma ben segnalato (e da ben 13 anni) nelle mappe del rischio idraulico dell'Autorità di Bacino del Fiume Magra. Aulla nuova è stata costruita occupando ben metà dell'alveo del Fiume Magra. Quindi gli allagamenti all’Isola d’Elba sempre negli stessi giorni dell’emergenza genovese e ligure.
E quest’anno corrono anche i 60 anni dall’alluvione del Polesine.
Poi la storica alluvione di Firenze (4 novembre 1966), quindi Versilia (19 giugno 1996), Sarno (il 5 maggio del 1998) Soverato (9 settembre 2000), Giampilieri Superiore e provincia di Messina (1 ottobre 2009), vicentino e padovano (1-2 novembre 2010). Solo per citare alcuni tra gli eventi di maggior impatto e drammaticità.
Una sequenza destinata a replicarsi se gli scienziati ci dicono che gli eventi estremi sono destinati ad aumentare. E l’Italia ovviamente non è immune.
Nel mondo solo negli ultimi 12 mesi, inondazioni in Australia, in Thailandia e in Brasile, con centinaia di vittime; alluvioni nello Sri Lanka e in Algeria; i tifoni che ad ottobre hanno ucciso 100 persone nelle Filippine o ancora la serie di tornado che ad aprile si sono abbattuti nel sud degli Stati Uniti, con un bilancio di oltre 300 vittime, il più grave della storia USA dal 1925.
Dall’altra parte però il Corno d’Africa con una grave siccità che mette a dura prova soprattutto i bambini.
Sembrerebbe che la natura stia alzando la voce per farsi sentire, che voglia dirci qualcosa che ancora l’uomo non è in grado di capire.
Gli eventi estremi ci hanno messo infatti di fronte a un nuovo vocabolario al quale dovremmo abituarci presto se non vogliamo proseguire a registrare altre date e altri morti.
Si parla di flash floods, alluvioni lampo, che, come quella di Genova, hanno portato via vite, anche di bambini, macchine, attività commerciali tirate su per un’intera esistenza. Ma si parla anche di città “resilienti”, cioè in grado di resistere ad alluvioni, ondate di calore, nevicate eccezionali.
Sì, ma resistenti come? Ecco la sfida, l’unica sfida che dobbiamo affrontare con urgenza.
È su questo che la scienza sta puntando l’attenzione. Il mondo dell’informazione ancora sembra lontano da questi temi, i decisori ancora di più.
Ma il mondo chiama a una svolta. Adattamento e resistenza sono le due nuove categorie che devono entrare nelle politiche delle singole amministrazioni per riprogettare le città, i nuclei più esposti ai rischi del clima futuro e dove vivrà il 75% dei 9,3 miliardi di popolazione mondiale al 2050.