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Nel settore acqua oggi più luci che ombre
Intervista a Giordano Colarullo, Direttore generale di Utilitalia
L’acqua è una risorsa indispensabile per il sostentamento degli equilibri naturali e per tutte le attività antropiche. Tuttavia, già oggi in diversi stati UE la scarsità d’acqua è un problema grave: secondo la Commissione UE almeno l’11% della popolazione europea e il 17% del suo territorio sono colpiti da scarsità d’acqua. E fra i paesi più a rischio appare l’Italia, Paese ad elevata vulnerabilità climatica, con una scarsa capacità di adattamento ad eventi legati al cambiamento climatico e un grave problema di perdite, pari a circa il 40% dell’acqua immessa in rete anche se con differenze fra Nord (32%) e Sud (50%). Dottor Colarullo, quali sono a suo giudizio le misure più urgenti per affrontare questa situazione?
Purtroppo, il nostro Paese soffre di un ritardo infrastrutturale che non è di origine recente. Negli anni ’50, ’60, ‘70 abbiamo investito pochissimo e oggi paghiamo il lascito degli scarsi investimenti; inoltre per decenni l’Italia è stata caratterizzata da grande ricchezza di acqua e di acqua di qualità facendo sì che nel DNA degli italiani si sia inserito un elemento del tutto erroneo, ovvero di non percepire l’acqua come un bene molto prezioso. A ciò si è sommato l’acceso dibattito politico sull’acqua come bene pubblico o privato, deviando rispetto alle vere problematiche sottostanti che riguardano l’avere una capacità industriale e di gestione. Oggi la sfida che abbiamo di fronte è il recupero accelerato del gap infrastrutturale, comprese le perdite, ma anche la depurazione e la fognatura. In generale, però, si cominciano a vedere più luci che ombre rispetto al passato, tenuto conto che nell’arco di un decennio, dal 2012 al 2022, gli investimenti sono quadruplicati, passando da 1 a 4 miliardi.
A che cosa è dovuto questo salto in avanti?
Un primo elemento positivo è stato sicuramente la presenza di un’autorità indipendente di settore, l’ARERA, che ha introdotto un nuovo regime tariffario favorendo la trasparenza e regole certe. E poi c’è stato un miglioramento progressivo della governance in buona parte d’Italia, non tutta, ma in buona parte sì, attraverso l’attuazione della riforma del ‘94, introdotta dalla Legge Galli che nelle sue varie declinazioni ed evoluzioni oggi viene rispettata più o meno nei 2/3 del Paese. Nel restante 1/3, prevalentemente al Sud d’Italia, purtroppo questo non avviene ancora e ne paghiamo lo scotto. Tuttavia, anche su questo fronte ci sono buone notizie. Ad esempio, la Calabria sembra ormai instradata verso una ‘normalizzazione’ e vi sono andamenti positivi anche in Sicilia e Campania che dovrebbero progressivamente andare a regime. Resta comunque il fatto che le tariffe sono un aspetto molto importante ma non l’unico: c’è anche un tema di governance che è fondamentale rafforzare.
Per fronteggiare le criticità sopra citate e non solo, nel PNRR sono previsti 2 miliardi per infrastrutture idriche e 600 milioni per fognature e depurazione. Sono sufficienti?
In senso stretto sono sicuramente pochi, tenuto conto che, come comparto, investiamo 4 miliardi l’anno mentre per il PNRR si parla di 2,6 miliardi in totale, spalmati su 5 anni. Però anche in questo caso vorrei dare una lettura positiva, perché non è il denaro pubblico che deve risolvere tutti i problemi. Quelli del PNRR sono fondi che vanno ad affiancarsi ai ricavi da tariffa, con due vantaggi specifici. Il primo è di alleviare il peso sulla tariffa. Il secondo è che per alcuni gestori il fatto di aver vinto e di avere avuto accesso ai fondi PNRR avendo superato il vaglio tecnico, mostra una capacità progettuale e dà un segnale anche a quei soggetti - come le banche, in primo luogo - che dovranno finanziare altri investimenti. Quindi quei 2,6 miliardi sono un buon booster, perché - in estrema sintesi- sono pochi ma bastano ad aiutare il comparto e contribuiscono a risolvere i problemi del Paese.
Sul tema acqua il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha affermato che “il governo intende affrontare i problemi strutturali del comparto”, a partire dalla “siccità che i cambiamenti climatici hanno reso un problema sempre più ricorrente e a tratti emergenziale”. “Vogliamo mettere a sistema risorse e interventi in capo a vari Ministeri e realizzare una unica strategia pluriennale a livello nazionale” con un “primo obiettivo di incrementare la capacità di stoccaggio delle acque piovane ancora fermo a un inaccettabile 11%”. Inoltre, “una corretta regimazione delle acque consente di rispondere in modo efficace anche al dissesto”. Quale può essere il ruolo di Utilitalia in questo contesto?
Sono proposte che accogliamo con molto favore. E del resto, in questa direzione si era già mosso il Ministero delle Infrastrutture. Come associazione possiamo svolgere un ruolo utile mettendo a punto un piano pluriennale, dando una valutazione tecnica anche nella selezione dei progetti PNRR - come abbiamo fatto in fase di pianificazione del PNRR - con una visione chiaramente nazionale, complessiva e di affiancamento agli organi pubblici. Abbiamo fatto raccolte di dati e svolto un’azione di sensibilizzazione anche nei confronti di quelle realtà che sono più difficili da raggiungere o che sono troppo impegnate nell’attuazione degli investimenti già in corso. Quindi il nostro è fondamentalmente un ruolo di volano, di hub. Abbiamo raccolto investimenti per 14 miliardi di proposte di progetti nell’ambito PNRR, poi ne sono stati finanziati 2,6, ma noi abbiamo avuto un ruolo abbastanza cruciale rispetto, per esempio, alla predisposizione dei bandi, degli avvisi. Questo ruolo di hub è centrale affinchè le linee di policy possano estrinsecarsi al meglio, essere più efficaci e fare sì che gli attori economici rispondano al meglio e in rapidità.
Ad oggi appare evidente la necessità di una gestione di tipo industriale del servizio idrico integrato per garantire standard accettabili di prestazioni e di investimenti, con le utility che rivestiranno un ruolo sempre più rilevante, agendo anche da “catalizzatori” degli investimenti europei. Il Sud Italia per contro ha ancora una gestione frammentata, con molte gestioni comunali in economia, e una situazione carente in termini di qualità del servizio oltre che di trasmissione dei dati relativi alle performance ambientali e di servizio delle gestioni idriche (rif. ARERA). Come si può superare questo divario tra Nord e Sud Italia?
Il punto centrale, oggi, è di introdurre una governance che permetta l’ingresso di una gestione industriale che non sia frammentata e che sia in grado di promuovere i necessari investimenti infrastrutturali. Quindi è fondamentale superare una governance emergenziale per permettere l’affidamento a soggetti industriali. Si tratta di un passaggio essenziale per affrontare il gap infrastrutturale nel nostro comparto. Quindi non è tanto una questione di risorse finanziarie ma di creare condizioni di mercato che siano favorevoli per attirare soggetti industriali.
Il nuovo Blue Book sull’acqua realizzato dalla Fondazione Utilitatis in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti e ISTAT evidenzia che in Italia gli investimenti sono ancora molto lontani dalla media europea di 100 euro pro capite mentre il consumo acqua potabile resta eccessivo rispetto alle medie europee. Quali azioni sarebbero necessarie per colmare questo gap?
Il tema è simile a quello che dicevamo prima ed è legato al tipo di gestione adottato. È vero che oggi in Italia non viene raggiunta la media europea di 100 euro pro capite di investimento e siamo intorno al 50% circa di quel valore. Tuttavia, se andiamo a considerare alcune zone del Paese, il livello di investimento pro capite supera i 60 e anche i 70 euro, avvicinandosi molto alle medie europee. E, come ho già detto in precedenza, il Paese si sta muovendo nella giusta direzione passando da 1 miliardo complessivamente investito nel 2012 a circa 4 miliardi nel 2022. Anche in questo caso per ridurre o azzerare i gap di investimenti l’unica soluzione efficace è mettere gestori industriali nelle aree dove restano le gestioni in economia. Oggi abbiamo ancora 8 milioni circa di italiani che vengono serviti da una gestione diretta dei comuni che non sono in grado di effettuare gli investimenti necessari, rimanendo il più delle volte sotto ai 10 euro pro capite. Quindi da un lato occorre rafforzare le gestioni industriali esistenti, è necessario affinché si portino tutte a un livello più alto, e dall’altro superare le gestioni dirette dei comuni e farle confluire finalmente nei soggetti industriali in modo che tutto quanto il Paese possa superare le gestioni in economia e avere un livello di investimenti adeguati.
Quali sono gli interventi prioritari per fornire una adeguata risposta alle nuove esigenze di tutela (es. introduzione di nuovi standard di qualità per i contaminanti emergenti) e per definire nuove modalità di gestione e recupero dei prodotti di scarto, valorizzando i percorsi di chiusura dei cicli e favorendo, ove possibile, la declinazione degli approcci di economia circolare?
Prima di tutto occorre una strategia One Health, cioè con una visione complessiva e olistica. E poi occorre muoversi a vari livelli: da un lato promuovendo una governance che poggi su una gestione sia industriale che a livello di distretto, quindi, anche sul rafforzamento e il maggiore coordinamento del governo del distretto. Un secondo livello riguarda la capacità infrastrutturale e il terzo livello l’approccio orientato al rischio, che vede la necessità di commisurare gli investimenti per minimizzare il rischio, compatibilmente con la capacità economica. Quindi parliamo dei Water Safety Plan che riguardano in particolare le fonti di approvvigionamento, sostanzialmente la possibile intrusione di sostanze contaminanti e di nuovi contaminanti, come microplastiche e PFAS. A mio avviso questo comporta la necessità e la capacità di gestire il rischio anche risalendo la filiera. Dunque, si torna al problema olistico, di cercare di agire sulle criticità anche a monte, in modo da ridurre sia l’uso che la produzione di certe sostanze, prima che entrino nel ciclo vitale.
Altri aspetti di rilievo riguardano il riutilizzo delle acque reflue e la definizione di modalità di smaltimento e riutilizzo sostenibile dei fanghi di depurazione. Quali azioni sarebbero necessarie in quest’ambito?
Anche in questo caso vorrei evidenziare gli aspetti positivi. Siamo davanti a una vera e propria “miniera d’oro”, ovviamente fra virgolette, a condizione di inquadrare quello che era la fine di un ciclo, quello idrico, come l’inizio di un ciclo di ricchezza, costituito da materiali, ammendanti agricoli e altre sostanze utili. Tutto ciò è particolarmente importante per un Paese come il nostro che ha meno risorse minerarie e naturali rispetto ad altri e si ritrova molto esposto agli effetti dei cambiamenti climatici e alla progressiva mancanza di acqua. In questo contesto, una prima azione fondamentale riguarda la normativa, a cominciare dal DM 185 del 2003 sul riuso delle acque, che va rivisto anche alla luce del Regolamento europeo. Si tratta di un decreto ministeriale che prevede parametri piuttosto stringenti che vanno al di là della tutela della salute stessa. Quest’intervento sarà centrale per il riuso dell’acqua, come del resto la sistemazione del DL 99 del 92 sui fanghi. Noi siamo favorevoli all’uso ottimale delle tecnologie, affinandole costantemente, per non sprecare l’opportunità di usare fanghi di qualità anche in agricoltura. Naturalmente questa è solo una parte ma è essenziale porre mano alle normative per poter dare un valore di prodotto a tutto quello che riusciamo a estrarre: dalla cellulosa, al fosforo, all’azoto e tutto quello che è possibile. Una volta il costo dell’estrazione era elevatissimo, oggi siamo in una fase in cui le tecnologie e i costi di produzione ci mettono condizione di estrarre il fosforo con un costo molto più contenuto. Quindi è fondamentale che lo sviluppo tecnologico accompagni questo processo, affiancandolo con norme abilitanti, puntando molto sull’innovazione o sull’applicazione di innovazioni tecnologiche già in essere, affinché si possa procedere su scala e arrivare a costi più contenuti, rendendo economica l’estrazione delle risorse e facendo della fine di un ciclo l’inizio di un nuovo ciclo.
A suo giudizio quanto è importante una strategia di gestione della domanda globale che promuova stili di vita e processi produttivi sostenibili e crei incentivi concreti per il risparmio, la conservazione e la resilienza delle fonti e delle relative infrastrutture idriche? In altri termini, quanto sono importanti le azioni per incrementare la consapevolezza dei cittadini ed in generale degli operatori e utenti del servizio idrico integrato e l’introduzione di eventuali meccanismi incentivanti, per ridurre gli sprechi e favorire comportamenti e usi più virtuosi tesi alla salvaguardia della risorsa idrica?
Sono azioni fondamentali. Perché non possiamo più permetterci il lusso di pensare solo a grandi risposte infrastrutturali che sono molto importanti ma non sono le uniche possibili. Di fatto, il comportamento di ciascun individuo diventa rilevante in un contesto in cui occorre risalire la filiera, sia in termini di risparmio, sia nell’uso di materiali che siano meno impattanti o magari più riutilizzabili. Tutto questo va a comporre dei tasselli di una strategia vincente complessiva.
La sensibilizzazione è assolutamente centrale anche per sfatare alcune convinzioni errate a livello di opinione pubblica. Ad esempio, da uno studio che abbiamo fatto sulla percezione della risorsa acqua emerge che gli italiani hanno un atteggiamento totalmente sbagliato rispetto alla salubrità dell’acqua del rubinetto, nel senso che non la bevono e preferiscono acquistare l’acqua minerale pensando che sia migliore. Invece è totalmente vero il contrario, perché generalmente, dove c’è un gestore industriale, il livello di controllo sull’acqua del rubinetto è elevatissimo. Ma non solo. L’indagine rivela che vi è una totale non percezione della scarsità del bene acqua. Il combinato disposto di questi due atteggiamenti porta a un’enorme uso dell’acqua del rubinetto per motivi diversi, per lavare l’auto, annaffiare il giardino e così via, con un consumo che è il doppio della media europea e fra i più elevati al mondo.
Quindi lei è favorevole a una campagna di informazione e sensibilizzazione
La ritengo fondamentale, anche per abbattere i nostri record negativi. Noi abbiamo fatto alcune azioni in questa direzione, ad esempio la scorsa estate con un decalogo delle buone pratiche e le aziende si stanno impegnando nei loro territori. Credo però che serva un ragionamento un po’ più ampio. A mio avviso deve esserci una campagna istituzionale dove partecipiamo anche con le imprese, ma con un chiaro coinvolgimento dello Stato, perché le persone devono percepire che queste azioni non sono per un interesse individuale ma di tutta la collettività. Una campagna è già stata fatta quest’estate dalla Presidenza del Consiglio ma servirebbe qualche cosa di più ampio per insistere sull’importanza di modificare i nostri comportamenti. Perché se non andiamo in questa direzione non andiamo da nessuna parte.