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Le utility attori fondamentali per l’innovazione
Intervista con Marco Cantamessa, membro della Giunta Esecutiva di Utilitalia e Presidente del Gruppo CVA
Professor Cantamessa oggi oltre il 50% della popolazione mondiale vive nelle città che consumano fino all’80% dell’energia a livello mondiale e concentrano sui loro territori oltre il 50% dei rifiuti globali, il 75% di consumo di risorse naturali e l’80% delle emissioni di tutto il pianeta. Dal suo punto di vista quali le direttrici su cui puntare per rendere le nostre città più smart, più sostenibili, efficienti, inclusive e competitive?
Le città sono da sempre luoghi di innovazione tecnologica, organizzativa e sociale, ma anche luoghi di contraddizione. Il territorio italiano è sicuramente meno “concentrato” rispetto a ciò che avviene in altri Paesi, ma è comunque necessario far sì che le nostre città, dalle più grandi a quelle più piccole, vedano un uso sempre più efficiente delle risorse, una riduzione delle esternalità negative, e un miglioramento della qualità della vita della cittadinanza nel suo insieme, riducendo le diversità sociali anziché acuirle. Tutto ciò si accompagna alla transizione ecologica e a quella digitale, investendo le imprese di una grande responsabilità per raggiungere gli obiettivi che ci si pone in questi ambiti. Le utility federate in Utilitalia per lungo tempo sono state considerate quali semplici fornitrici di commodity, operanti in mercati protetti, ma sono oggi diventate attori fondamentali di un processo innovativo di grande importanza.
È pertanto vincente il modello di fornitura dei servizi pubblici in base a un modello industriale, che ha dimostrato di saper coniugare competenza tecnica, sostenibilità economica, e capacità di investimento. Nel 2023 si stima che gli investimenti delle utilities siano stati pari a circa 11 miliardi, importo che potrebbe crescere ulteriormente e in modo rilevante, qualora le condizioni regolatorie e autorizzative lo consentissero.
Per favorire un più alto livello della qualità della vita dei cittadini, una più efficace tutela dell’ambiente ma anche risparmi sui costi, ritorni sugli investimenti, maggiore competitività delle imprese ed occupazione, una grande opportunità può essere rappresentata dall’innovazione in chiave di ‘smartizzazione’: smart city, smart grids, smart communities, mobilità smart solo per fare alcuni esempi. Quali sono le sfide da affrontare in questo percorso?
Quando parliamo di questi modelli “smart” dimentichiamo spesso che si tratta di trasformazioni infrastrutturali e sociali complesse, nelle quali non basta acquistare un macchinario, installarlo, accenderlo, e goderne l’output. In primo luogo, si tratta di gestire un processo di adozione di nuove tecnologie che sono in fase di continuo sviluppo, e occorre dosare sapientemente gli investimenti nel tempo e nei volumi, evitando sia inutili ritardi, sia una fretta eccessiva nello scaling up, che poi andrebbe a ostacolare la successiva adozione di soluzioni migliori.
In secondo luogo, le nuove tecnologie comportano nuovi paradigmi organizzativi e modelli di business, che richiedono tempo per essere sperimentati e messi a punto, e questo vale soprattutto in settori altamente regolamentati, come quelli dei servizi pubblici.
Infine, bisogna sempre tenere al centro gli utenti-cittadini: la proposta di servizi deve sempre rispondere alle esigenze reali di chi nelle città vive, lavora, cresce una famiglia e coltiva amicizie e interessi. Non dobbiamo commettere l’errore di pensare che gli utenti-cittadini siano o, peggio ancora, debbano essere, quelli che noi vorremmo che fossero!
In una recente intervista lei ha dichiarato che esiste un fil rouge tra l’innovazione tecnologica e lo sviluppo di nuove professioni. Ci può spiegare meglio come, a suo giudizio, deve funzionare questo meccanismo in una prospettiva smart?
L’innovazione tecnologica non evolve da sola, ma cammina sulle gambe delle persone che conoscono le nuove tecnologie, sapendole sviluppare sul lato dell’offerta, e sapendole sfruttare sul lato della domanda. Ciò richiede di saper fornire a tutta la popolazione, giovani e meno giovani, conoscenze e competenze aggiornate. Questo è essenziale per la competitività del Paese, ma anche per la sua coesione sociale.
Per ottenere ciò, occorre da un lato alzare in generale il livello di scolarità del Paese, che oggi è uno dei più bassi d’Europa, e stimolare l’orientamento verso le competenze STEM. Però, non si deve pensare che si tratti di far studiare tutti da ingegneri e da informatici! Occorre sviluppare competenze e professionalità aggiornate e di più alto livello in modo trasversale, e a prescindere da ruoli e occupazione.
Sapersi inserire in processi digitali, saper leggere e comprendere informazioni complesse, comprendere le potenzialità di nuove tecnologie e nuovi servizi, è necessario al cittadino che deve pagare la bolletta come al manutentore di un impianto. Per ottenere ciò, la didattica fornita da scuole e università viene sempre più affiancata da una didattica nuova, proposta da organizzazioni terze (es. le diverse coding academy che stanno nascendo nel mondo per formare sviluppatori software), oppure da Academy che fanno capo a imprese, filiere o associazioni di categoria. Le più grandi tra le aziende federate a Utilitalia hanno loro entità formative interne, e anche la federazione, operando a livello centrale con l’Accademia dei Servizi Pubblici e insieme alle Confservizi regionali, svolge un’opera capillare di grande importanza.
Le politiche nazionali ed europee per la transizione energetica richiedono un cambio di paradigma che attui una radicale trasformazione nella gestione delle infrastrutture e delle città, coinvolgendo anche attivamente produttori e consumatori, per ridurre i consumi di energia primaria da fonti fossili, salvaguardando il benessere socioeconomico. Qual è la strategia di Utilitalia in questo contesto?
Utilitalia e le imprese federate sono al centro della transizione energetica, e tutti i loro piani strategici includono importanti programmi di sviluppo nelle energie rinnovabili, dall’idroelettrico all’eolico e al fotovoltaico. Per darvi un’idea, CVA, l’impresa di cui sono Presidente, raddoppierà la propria capacità produttiva “green” entro il 2027. Tali piani richiedono condizioni normative diverse da quelle attuali, così da favorire gli investimenti, anziché rallentandoli. Questo è un punto centrale, e ciò che stiamo osservando, in particolare per l’idroelettrico, purtroppo non rasserena molto.
Oltre a produrre e vendere energia rinnovabile, molte utility, tra cui anche CVA, hanno investito nel settore dell’efficienza energetica, consci che l’energia più pulita di tutte è quella che non viene consumata: aiutare famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni a risparmiare energia e a spostare le utenze sul vettore elettrico è sicuramente una strada maestra per ridurre il nostro impatto carbonico.
Siamo anche molto presenti nello sviluppo delle Comunità Energetiche, che proprio in questi mesi hanno visto chiarirsi il quadro normativo di riferimento, e che consentiranno di fare ulteriori passi verso la decarbonizzazione, introducendo modelli nuovi, e anche assai sfidanti, di produzione e consumo dell’energia.
La digitalizzazione del settore energetico è cruciale per favorire l’integrazione delle fonti rinnovabili e ridurre la dipendenza dalle fonti fossili, mantenendo al contempo la sicurezza delle reti energetiche. Quali sono le sfide da affrontare per promuovere la transizione nel settore energetico e quali strategie pensa che debbano essere adottate per superarle?
Come ho detto prima, la transizione energetica si basa sulla crescita delle fonti rinnovabili, sviluppando eolico e fotovoltaico, oltre che tornando a investire sull’idroelettrico e, aggiungerei, riprendendo il tema, purtroppo abbandonato anni fa, del nucleare. Ora, le fonti rinnovabili hanno la caratteristica di essere solo in parte continue, prevedibili e programmabili, e ciò rende cruciale saperle gestire a fronte di una domanda che oggi non segue gli stessi profili della produzione. Da un lato, si tratta di investire in grandi impianti di accumulo di energia, il cui impiego su larga scala si scontra però con i limiti di costo e prestazione delle tecnologie oggi disponibili. Dall’altro lato, si tratta di far interagire meglio domanda e offerta, facendole muovere in maggiore sincronia, con un flusso di dati in tempo reale tra chi produce, chi consuma e chi accumula, e con opportuni meccanismi incentivanti e di prezzo. Siamo ancora all’inizio di questo cambiamento di paradigma, la normativa sta evolvendo, e ciò porterà a ridisegnare in maniera assai importante i modelli di business lungo la filiera energetica.
Secondo lei cosa dovremmo fare in Italia per attrarre nuove iniziative imprenditoriali e come dovremmo ridisegnare le nostre città per contribuire a far crescere nuovi “ecosistemi” smart?
La domanda tocca quella che considero la seconda crisi demografica del Paese: non solo in Italia nascono pochi bambini, ma anche poche imprese capaci di crescere e di andare a sostituire quelle che hanno ormai esaurito il proprio ciclo vitale. Anche qui si tratta di stimolare le nascite, cioè l’imprenditorialità degli attuali cittadini, ma anche di favorire un’immigrazione di livello, cioè l’attrazione di imprenditori e di investitori esteri. Viviamo in un mondo in cui chi ha capacità imprenditoriale non esita a muoversi e a trasferirsi laddove reputa ci siano le condizioni per meglio far fruttare idee, tecnologie e capitali e, quindi, c’è grande concorrenza tra ecosistemi territoriali. L’Italia ha alcune carte da giocare: ha competenze tecniche e industriali di alto livello, che rendono facile industrializzare l’innovazione rapidamente e a basso costo, e offre agli innovatori un’elevata qualità della vita a prezzi ragionevoli. Per contro, l’Italia non esprime ancora una domanda di innovazione adeguatamente forte e strutturata, e nessuna innovazione può svilupparsi se non c’è domanda. Su questo, Utilitalia e le sue imprese si sono mosse in forze.
Le principali utility hanno da tempo sviluppato programmi di Open Innovation e di Corporate Venturing, e anche Utilitalia ha recentemente dato il via a diverse iniziative tese a favorire l’avvio di relazioni tra utility e startup e scaleup. L’ultimo Innovation Day tenuto lo scorso ottobre ha registrato davvero tanta partecipazione.
Devo anche dire che il nostro Paese è caratterizzato da un insieme di norme e di iter burocratici che risultano incomprensibili a chiunque viva le dinamiche di tempo tipiche del mondo dell’innovazione. È chiaro che, in questo gioco competitivo, le città italiane patiscano e fatichino a emergere nei ranking internazionali. Mentre alcune azioni e riforme vanno condotte a livello di sistema-Paese, molto si può fare nelle città, per renderle più vivibili, più vivaci e capaci di offrire competenze e stili di vita “internazionali”, pur senza perdere le radici dei nostri territori. Anche qui, le utility hanno un ruolo assai importante in questo processo.
Ma la trasformazione digitale può influire positivamente sulla competitività nazionale? E in che misura? Qual è l’esperienza di Utilitalia nel settore?
Il Paese non deve assolutamente ripetere l’errore commesso negli anni ’80-90, quando tardò ad adottare le tecnologie ICT che iniziavano a diffondersi in quel periodo, e non fece evolvere di conseguenza i processi aziendali, i modelli organizzativi e di business. Per colpa di questa esitazione, l’Italia non fu capace di stare al passo con quella crescita di produttività che invece ha beneficiato tutti gli altri Paesi avanzati. Se oggi abbiamo diverse imprese in crisi, stipendi stagnanti, e un debito pubblico preoccupante, lo dobbiamo soprattutto a questo errore. Imprese, pubbliche amministrazioni e famiglie devono quindi recuperare rapidamente il terreno perduto, imparando a usare con profitto le diverse tecnologie digitali oggi disponibili.
Le imprese di Utilitalia sono sicuramente all’avanguardia in questo sforzo e, negli anni, hanno fatto un bel cammino. Sono imprese che hanno le loro radici in un’impiantistica pesante, che richiede grandi investimenti e che si sviluppa lungo cicli di vita pluridecennali, ma hanno da tempo capito che il “digitale” non è un accessorio marginale. Al contrario, i sistemi ICT oggi costituiscono il “sistema nervoso” che consente di progettare e gestire al meglio l’infrastruttura energetica, ambientale e delle acque. Sono ormai molti gli impianti che sono stati concepiti “digital first” e che, grazie a sensori distribuiti, algoritmi di AI, e sistemi di comunicazione distribuita, consentono a chi li gestisce di raggiungere target di efficacia, efficienza e affidabilità di altissimo livello.