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Jim Skea

La comunicazione è uno strumento essenziale per proteggere il clima

Intervista con Jim Skea, Presidente dell'IPCC

Jim Skea è stato eletto Presidente del Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC) nel luglio 2023. Dal 2015 al 2023, è stato co-presidente del Gruppo di Lavoro III dell'IPCC e ha fatto inoltre parte della leadership scientifica per la stesura del Rapporto Speciale sul Riscaldamento Globale di 1,5°C. Dal 2009 al 2023, è stato Professore di Energia Sostenibile all’Imperial College di Londra. I suoi settori di interesse sono l'energia, il cambiamento climatico e l'innovazione tecnologica. Tra il 2012 e il 2017, ha gestito una borsa di studio dal Research Councils UK’s Energy Strategy ed è stato Presidente del Energy Institute. Dal 2004 al 2012 è stato Direttore della Ricerca del UK Energy Research Centre. Ha studiato Fisica Matematica all'Università di Edimburgo e ha conseguito un dottorato di ricerca energetica al Cavendish Laboratory dell'Università di Cambridge. Con quasi quarant'anni di attività nella ricerca e comunicazione della scienza del cambiamento climatico, Jim Skea è una delle figure più autorevoli a livello internazionale in questo settore. Questa è l'intervista che ha gentilmente concesso alla nostra rivista.

Presidente Skea, lei  è stato eletto al vertice dell'IPCC alla fine di luglio 2023. Quali sono state le principali tematiche con le quali ha dovuto confrontarsi?

“’IPCC non è un organismo che dà risposte a circostanze specifiche  o affronta  problematiche specifiche. Per questo ciclo (ndr. il ciclo per la stesura del 7° Assesment Report dell’IPCC) , sapevamo già quali erano  le cose da fare e le avevamo già definite: in primo luogo, per l’IPCC è molto  importante acquisire una rilevanza politica e stiamo lavorando su questo, per fare in modo che la conoscenza scientifica che siamo in grado di offrire sia utile ai decisori politici e applicabile a tutti i livelli, che si tratti di negoziati internazionali, nazionali o all’interno dei singoli Paesi. In questa fase, ad esempio, stiamo lavorando molto sugli interventi a livello delle municipalità.   

In secondo luogo, dobbiamo prestare molta attenzione all'interazione tra i diversi tipi di ricerca scientifica che stiamo portando avanti.  Abbiamo tre Gruppi di Lavoro: uno sulla scienza fisica, uno sugli impatti del cambiamento climatico e uno sulla mitigazione, o riduzione delle emissioni. Dobbiamo assicurarci che ci sia una corretta comunicazione all'interno di questi gruppi e che collaborino tra loro. Inoltre, stiamo lavorando con particolare impegno su quell’aspetto che si potrebbe definire come ‘inclusività’, per garantire un’adeguata rappresentanza a Paesi in via di sviluppo e assicurare un equilibrio di genere nelle attività dell'IPCC.

Quindi, i tre aspetti su cui siamo concentrati attualmente sono: essere rilevanti a livello politico, assicurare la collaborazione interdisciplinare tra i diversi gruppi scientifici e l'inclusione.

Può spiegarci in sintesi come è organizzato e come funziona l'IPCC?

“Il punto fondamentale è la lettera ‘I’ che sta per ‘intergovernativo’. I membri dell'IPCC sono i governi e sono loro a eleggere la leadership scientifica, composta da 34 scienziati provenienti da  diversi Paesi, tra i quali viene poi eletto il Presidente. Ma il lavoro più impegnativo è quello svolto dagli autori volontari, gli scienziati che lavorano insieme alla stesura dei rapporti, che sono, a loro volta, nominati dai governi e poi selezionati dalla leadership scientifica eletta”.

Nonostante sia ormai accettato a livello globale il dato scientifico dell’IPCC sulle responsabilità umane del surriscaldamento del clima,  la comunità internazionale sta facendo fatica a raggiungere gli obiettivi di mitigazione dell'Accordo di Parigi. Siamo ancora in tempo per cambiare direzione?

 “Non stiamo fallendo soltanto l'obiettivo della mitigazione: non riusciamo neanche a raggiungere gli obiettivi di adattamento e di finanziamento. Eppure, non verrà mai il tempo in cui non avrà più senso ridurre le emissioni (ndr. di gas serra). Anche se dovessimo superare i 1,5 gradi di riscaldamento, avrà sempre senso farlo. Comprendere se ancora siamo in tempo o se invece  lo abbiamo esaurito, ad esempio per limitare il riscaldamento a 1,5 gradi, non implica che dovremmo interrompere gli interventi per la riduzione delle emissioni: farlo avrà sempre senso, tenuto conto che, se attuata, i costi della mitigazione sono sempre inferiori al costo dovuto alla rinuncia dei benefici derivati dalla riduzione degli impatti”.

Quindi, anche l'adattamento è un settore critico. a. Lei ha affermato che “negli obiettivi dell’Accordo di Parigi ci  sono lacune tra le aspirazioni e le azioni intraprese”  e ha sottolineato il rischio di azioni di maladaptation, ovvero di adattamento sbagliato. Può spiegare questo concetto ai nostri lettori?

“A  mio giudizio, la cosa essenziale è concentrarsi sulle misure di adattamento,  su ciò che positivamente si può fare per contrastare il cambiamento climatico. Ci sono, però, interventi di adattamento che portano benefici a breve termine, ma che possono avere effetti negativi nel lungo termine. Ad esempio, edificare in una zona costiera ed erigere una barriera frangiflutti per proteggere le case dall'innalzamento del livello del mare, potrebbe funzionare per un certo periodo. Ma è possibile che, con il passare dei decenni, quella barriera non sia più sufficiente a proteggere l’area edificata. Quindi, in primo luogo, forse non si sarebbero mai dovute costruire case in quella zona. Possiamo affermare  che costruire delle case con una barriera il cui utilizzo è limitato nel tempo è  un possibile esempio di adattamento sbagliato. Spero che questo spieghi il concetto: l’adattamento sbagliatofunziona nel  breve termine ma non necessariamente per sempre”.

Rispetto agli obiettivi finanziari lei ha osservato che “ci sono evidenti lacune tra i finanziamenti climatici monitorati e ciò che è necessario per imboccare percorsi di sviluppo a basse emissioni e resilienti al clima. Solo tra il 4 e l'8% dei finanziamenti climatici monitorati è destinato all'adattamento, e oltre il 90% dei finanziamenti per l'adattamento proviene da fonti pubbliche”. È possibile invertire questa tendenza e come?

“E’ meno difficile trovare finanziamenti per la mitigazione,  rispetto all'adattamento, perché per la mitigazione esiste un’unità di misura molto semplice, cioè il costo in termini di anidride carbonica equivalente. Al contrario, per l'adattamento non esiste un'unica metrica sulla quale misurare gli investimenti per la prevenzione. L’altro aspetto di cui tener conto è che molte misure di adattamento sono legate allo sviluppo economico in generale e alla pianificazione di nuove infrastrutture. Ad esempio, il modo in cui si progetta una nuova città potrebbe renderla più o meno resiliente ai cambiamenti climatici. Se nel piano si integrano  infrastrutture verdi e blu, cioè più alberi, più aree verdi con laghi o fiumi, questo può davvero contribuire all’adattamento ai cambiamenti climatici, ma fa parte dello sviluppo generale. Quindi, è molto più difficile attrarre finanziamenti privati per l'adattamento.”

Può darci alcuni esempi di possibili iniziative private di adattamento?

“Ad esempio, il settore assicurativo potrebbe essere interessato a finanziare misure di adattamento, per proteggersi da future perdite; un altro settore è quello delle filiere alimentari, potenzialmente vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici. È probabile che i rivenditori o i produttori di generi alimentari possano avere interesse a investire nella resilienza climatica, perché in questo modo proteggeranno la loro filiera. E possono esserci anche settori dove gli interventi possono contribuire a ridurre le emissioni e a  rendere le comunità locali più resilienti agli effetti dei cambiamenti climatici. E’ il caso, in particolare, idi alcuni interventi per il territorio, ad esempio in agricoltura, dove le tecniche agricole che consentono di accumulare carbonio nei suoli, contribuendo all’assorbimento dell'anidride carbonica dall'atmosfera, possono renderci più resilienti anche agli effetti del cambiamento climatico. Se le aziende private investiranno in questo tipo di misure, con i benefici sia per la mitigazione che per l'adattamento, dovranno sostenere i costi della mitigazione, ma allo stesso tempo si otterrà anche un certo adattamento”.

Nel suo  discorso all'Assemblea  delle Nazioni Unite sull’ambiente lei ha sottolineato che “il mondo non sta davvero ascoltando la scienza”. E ha aggiunto: “abbiamo ancora del lavoro  da fare” per fornire informazioni che possano essere messe in pratica e comunicarle ai pubblici giusti; allo  stesso tempo “dobbiamo smettere di sembrare un disco rotto”. Quali sono i passi più urgenti da compiere in questa direzione?

“Credo che questa affermazione vada leggermente affinata per dire che il mondo non sta agendo sulla base della scienza. Se ciò sia dovuto al fatto che il mondo non ci ascolta o perché ci ha ascoltato ma ha scelto di non agire, è qualcosa che va chiesto direttamente a coloro che oggi non stanno agendo. Non posso parlare per loro. Tuttavia penso  che sia molto importante che quando pubblichiamo  i nostri rapporti IPCC, riflettiamo su come dobbiamo scriverli per riuscire a convogliare messaggi molto chiari sulle possibili conseguenze del cambiamento climatico, ma soprattutto sulle azioni positive che possiamo intraprendere in futuro, ai  decisori politici, al pubblico in generale e alla società civile,

Nell'ultimo ciclo dell'IPCC, (ndr. 6° Assesment Report) abbiamo prodotto 10.000 pagine di rapporti: non le ho lette tutte di seguito e non credo che nessuno lo abbia fatto. Per noi, quindi, è un’esigenza imprescindibile riassumerle e comunicarne i contenuti scientifici in modo molto chiaro affinché le tutti possano comprendere  i rischi del cambiamento climatico e le possibilità di intervento per affrontarlo. Nel prossimo ciclo rifletteremo con ancora più attenzione al modo in cui scriviamo  i nostri rapporti e a come li comunichiamo.”

Un'ultima domanda. Perché pensa che siamo indietro su raggiungimento degli obiettivi dell'Accordo di Parigi?

“Per raggiungere tutti gli obiettivi dell'Accordo di Parigi è necessario un cambio di rotta  sostanziale. Come abbiamo detto, per la mitigazione sono necessarie trasformazioni a livello sistemico nell'energia, nei trasporti e nel modo in cui gestiamo il territorio. Credo che molti governi trovino tutto ciò piuttosto difficile da conciliare con altre questioni urgenti; ad esempio, tematiche come la sicurezza energetica hanno la priorità nei bilanci pubblici. Quindi, penso che la difficoltà sia questa e che per questo sia importante comunicare i rischi del cambiamento climatico e i benefici effetti degli interventi per contrastarlo, molti dei quali comportano ulteriori vantaggi per quanto riguarda gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Se non riusciremo a comunicare tutto questo in modo efficace, penso che ci saranno scarse probabilità di sviluppare politiche ambiziose per il clima. La comunicazione è uno dei principali strumenti che la scienza deve saper utilizzare per proteggere il clima.

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